Una parte della Spagna scende ancora in strada. Questa volta per protestare contro la sentenza della Navarra che condanna i cinque responsabili di un’aggressione sessuale di gruppo non per il reato di stupro, ma per abuso sessuale. I giudici e il sistema giudiziario vengono messi in discussione, anche se la sentenza non è definitiva. Quasi il 90% dei cittadini non è d’accordo con la pronuncia dei giudici. I politici del governo e dell’opposizione promettono, di fronte a tale indignazione, cambiamenti nel codice penale, una riforma legislativa, sicuramente un inasprimento delle pene. 

La lettura dei fatti è difficile da sopportare da una sensibilità sana. La cosa più sacra, che deve essere consegnata solamente in un atto di libertà, l’inviolabilità della persona nella sua carne, nella carne di una giovane, divenuta oggetto di preda. Una barbarie, il male. E di fronte al male si chiede più giustizia, un diritto migliore, leggi più dure, giudici implacabili. 

Settimana dopo settimana si ripete la stessa reazione. Il soprassalto è continuo. L’Eta, il gruppo terrorista che ha causato così tanti danni agli spagnoli, di cui non rimane nulla, annuncia il suo scioglimento. Prima, per facilitare l’avvicinamento dei suoi prigionieri ai Paesi Baschi, chiede un finto perdono alle sue vittime. Non smette di rivendicare i suoi misfatti. Il male è anche quello di chi non si pente. Soluzione: i terroristi marciscano in prigione. Non ci sono ragioni legali per impedirgli di godere dei benefici penitenziari. Ma che nessuno pensi di parlarne. E per i responsabili di crimini atroci, prigione a vita. 

Se la sinistra prova a proporre una modifica dell’ergastolo, uno dei più duri in Europa, in un Paese con le condanne più lunghe d’Europa, scoppia lo scandalo. Perché la stragrande maggioranza degli spagnoli di fronte al male, di fronte al conflitto, vuole più durezza. E per risolvere il conflitto di una metà della Catalogna che vuole diventare indipendente (in questo caso ci sarebbe il male della separazione) solo il codice penale. 

Malati di diritto, disarmati di fronte all’iniquità. Destra contro sinistra per il suo “buonismo” giuridico, femministe contro i giudici per il loro maschilismo nell’applicare la legge, giudici che chiedono il rispetto, politici con partiti in crisi che cercano più consenso, giornalisti che creano sensazionalismo. Violenza crescente. Ritratto di un grande smarrimento. Perché il male è così, divide. A meno che, per qualche strano miracolo, si possa tornare a utilizzare la ragione civica e si possa iniziare a parlare di qualcosa di più delle leggi. 

Le domande sono semplici: perché aumentano i casi in cui una donna viene trasformata in un oggetto di preda? Cosa stiamo sbagliando? Dove fallisce il nostro sistema educativo? Non sono domande per far sì che i cattolici rimproverino gli altri per la loro permissività, per far sì che i cattolici vengano rimproverati per la loro educazione maschilista, per far scontrare destra e sinistra, post-femminismo e femminismo critico o scagliare tutti contro i giudici. Sono domande per tutti e per ciascuno. Come si può vivere quando il danno sembra irreparabile? 

Le domande vengono silenziate e non c’è dibattito perché siamo cresciuti tutti con l’idea che la democrazia si fonda esclusivamente sulla protezione dei diritti da parte dello Stato. Uno Stato che regolasse bene il mercato, che garantisse il benessere. Questo era l’obiettivo. Ciò che ci fa stare insieme in una società plurale è soggettivo, appartiene al campo delle emozioni e delle opinioni. Non abbiamo forse tutti lo stesso desiderio di giustizia? Non possiamo iniziare una conversazione seria su ciò che soddisfa e non soddisfa questo desiderio piuttosto che chiedere urlando più o meno condanne? Solamente quando si sente una delle vittime parlare di perdono si fa silenzio. Non potremmo partire da qui? Non potremmo trasformare questo perdono, in cui ci riconosciamo tutti, o vorremmo riconoscerci, in una categoria civica che ci salva dalla disperata inflazione di diritto?