Si stanno moltiplicando le diagnosi sul corpo malato del sistema capitalistico. C’è chi ritiene che l’aumento di nuovi ricchi (record nel 2017 secondo il Rapporto Oxfam) sia un bene che ricadrà sul resto della popolazione. C’è chi sottolinea invece l’altra faccia della medaglia: non solo il numero dei ricchi, ma anche quello dei poveri che sta crescendo con prospettive sempre più incerte. Il capitalismo finanziarizzato, che ha messo al centro dell’organizzazione sociale il denaro anziché il lavoro, offre tanti esempi e, in realtà nessuno può immaginare a quale futuro porti.

Un ingegnere americano raccontava a un amico come nella sua azienda, ben organizzata, sono i robot a compiere azioni quali scegliere, spostare, impacchettare i prodotti. In teoria, i robot potrebbero essere impiegati per svolgere altre mansioni. Ma per ora non conviene. Perché? Lo smaltimento dei cartoni, ad esempio, ha detto l’ingegnere, viene affidato ai guatemaltechi perché costano di meno. Non è un caso: la finanziarizzazione, che comporta rendimenti superiori rispetto a quelli garantiti dall’economia reale, sommata al vantaggio che implica il vivere in aree urbane rispetto ai piccoli centri, è destinata ad acuire la disuguaglianza tra le persone. I dati sull’impoverimento sono indubitabili e richiamano alla situazione della prima industrializzazione di inizio Ottocento, con il medesimo allarme che si alza dai poveri più poveri.

Karl Marx (nato esattamente duecento anni fa, l’11 maggio 1818), in quell’epoca ebbe il merito di dedicare la sua riflessione al tema dell’ingiustizia che si genera con lo sfruttamento dei lavoratori. Lo schema della lotta di classe finì per ispirare violenze e sopraffazioni anche peggiori, però almeno provò a mettere in discussione un’idea di sviluppo basato sul ruolo strutturale degli sfruttati. C’è una strada alternativa allo schema marxiano che non sia una semplice distratta alzata di spalle? Nello stesso periodo in cui visse Marx, nacque un altro movimento, quello di tanti cristiani che si misero con gli ultimi degli ultimi. Tra loro ci sono santi sociali come don Bosco, Calasanzio, Cottolengo. E un sacerdote francese, sconosciuto ai più, padre Stefano Pernet che dedicò la vita ad aiutare i diseredati delle periferie urbane nelle prime città industrializzate. Un volume di Paola Bergamini da poco pubblicato, Il vangelo guancia a guancia. Vita di padre Stefano Pernet (edizioni Piemme) racconta la storia di questo religioso.

In ambienti ostili alla Chiesa, Pernet fonda la congregazione delle Piccole Suore dell’Assunzione, giovani donne che si recano nelle case delle persone bisognose di accudimento e svolgono mansioni semplici: cucinare, pulire, medicare. Senza nulla in cambio, spesso in silenzio e senza avere in mente alcuna forma di proselitismo. A differenza di gran parte della Chiesa di allora, Pernet non si pone in modo ideologicamente ostile al mondo nuovo, come dice alle suore dopo pochi giorni dal suo arrivo a New York: “C’è del buono in questa potenza del lavoro. Noi dobbiamo imitarli, ma dando al buon impiego del tempo uno scopo diverso dal guadagnare denaro. Il nostro scopo è guadagnare il cuore di Nostro Signore e il Paradiso. E state certe che il nostro guadagno è ben più alto di quello dei newyorkesi. In questo Paese ci sono energia, vita, belle speranze”.

Quindi Pernet e le sue suore si inseriscono in quel mondo mettendo in luce che, anche in queste mutate condizioni di vita, il bisogno più radicale di una persona è quello di essere in relazione, sostenuta e amata.

Lui poteva capirlo perché la sua grande fede e la sua grande sensibilità nascevano da una vocazione sofferta: da ragazzo si sottrae due volte a una strada religiosa che sembrava tracciata. La pienezza che riesce a comunicare agli altri è frutto di una maturazione reale, piena di dubbi e di contrasti. Se non avesse preso sul serio i suoi dubbi, le sue fatiche, le sue domande, non avrebbe potuto essere così vicino a quelle degli altri. Paola Bergamini racconta le domande che albergavano nel suo cuore: “…il ricco specula sul povero, il potente abusa del debole e lo rende schiavo: tutto crolla nella società, perché nel mondo si diventa ciechi e perfidi. Come riparare tanti disastri e rimediare a tanti mali?”.

La risposta di Pernet e delle suore è una sola: la presenza e il servizio a fianco dei poveri. Lui e le sue suore si facevano prossimi agli altri nelle loro esigenze quotidiane. Anche se non potevano guarire da malattie, facevano chiudere gli occhi ai loro assistiti dopo aver fatto vedere loro qualcosa di bello in questo mondo.

Non discorsi, ma uno “stare”, lieto e pieno di umanità. Nel racconto viene fatto dire a un ragazzo che difende una delle suore in un momento di furia anti-religiosa che aveva invaso Parigi: “Gesuiti, domenicani, orsoline, preti, suore… Per me possono andare alla malora. Di loro puoi dire quello che vuoi. Ma sulle Piccole Suore non ci provare a pronunciare una parola cattiva. Sono la nostra salvezza. Non predicano, operano. Portano la gioia nelle famiglie. Ma tu non puoi capire! Come tutti i borghesi massoni che vogliono rifare il Paese… Sulla nostra pelle. Queste donne sono una luce in questo immondezzaio”. “Come ti infiammi! Neanche avessi parlato male di tua madre”. “Taci! Una di loro lo è stata per me”.

Presenze che lasciano traccia nel tempo, a sentire la testimonianza di papa Bergoglio contenuta nella prefazione al libro: “Ero nato da meno di un giorno quando una giovane novizia delle Piccole Suore dell’Assunzione, Antonia, venne a casa nostra, nel quartiere Flores di Buenos Aires, e mi tenne tra le sue braccia. Ho tanti ricordi legati a queste religiose che come angeli silenziosi entrano nelle case di chi ha bisogno, lavorano con pazienza, accudiscono, aiutano, e poi silenziosamente se ne tornano in convento”.

Questo esempio di grande umanità e grande fede mostra quale debba essere la priorità e l’urgenza nei confronti delle persone. Ad altri può spettare anche la proposta di un capitalismo diverso dall’attuale.