È in corso una guerra tra poveri su cui è bene non far calare l\’attenzione: quella per la dignità del lavoro. E\’ una guerra che riguarda sicuramente la lotta alla disoccupazione, contro la precarietà e, non ultimo, per l\’\”umanità\” delle condizioni di lavoro.

Tutti ricorderanno la vicenda dello sciopero dei lavoratori di Amazon nella sede di Piacenza durante il \”Black Friday\” dello scorso novembre. La protesta nasceva per dare uno stop a ritmi di lavoro massacranti, passati in attività ripetitive, dannose alla salute e con tempi di recupero insufficienti. Un paio di mesi dopo scoppiava la polemica sul braccialetto elettronico, che la stessa azienda di Jeff Bezos stava brevettando per controllare i movimenti dei magazzinieri e dare loro indicazioni per essere più efficienti.

La scorsa settimana l\’Ispettorato del lavoro ha notificato ad Amazon un verbale in cui si contesta di \”aver utilizzato i lavoratori somministrati oltre i limiti quantitativi individuati dal contratto collettivo applicato\”. La percentuale di flessibilità (tra cui sono considerati i contratti \”in affitto\”), insieme, ad esempio, a quelli a tempo determinato e a chiamata) non dovrebbe essere superiore al 28%. L\’Ispettorato nota che Amazon, \”a fronte di un limite mensile di 444 contratti di somministrazione attivabili, ha invece sensibilmente superato tale limite, utilizzando in eccesso un totale di 1.308 contratti per lavoratori somministrati\”.

La multinazionale americana ha comunicato di voler fornire delle \”motivazioni\” a riguardo e si è ancora in attesa della pubblicazione del testo del verbale, grazie al quale si saprà quale tipo di conteggio ha portato l\’Ispettorato a tali conclusioni. Va ricordato, infatti, che tra i somministrati non vanno considerate, ad esempio, le persone svantaggiate.

Il problema, anche in questo caso, non è solo la preferenza dell\’impresa per i lavoratori precari, ma un rapporto azienda-lavoratore che perde di vista lo scopo di un\’attività economica: l\’essere umano e il suo benessere.

In un Paese come il nostro, dove il tessuto economico è costituito per oltre il 90% da piccole e medie aziende, è più facile considerare la risorsa che rappresenta ogni singolo lavoratore: l\’imprenditore ha davanti a sé tutte le facce. È più facile in una multinazionale, invece, considerare il lavoratore come un numero e concentrarsi sulla produttività aggregata da migliorare, costi quel che costi.

Ma cosa succede se un\’azienda tratta il lavoratore come un costo da sostenere di fronte al massimo vantaggio da ottenere? Non stupirà se dovesse accadere che molti lavoratori di Amazon, a seguito dell\’obbligo dell\’azienda ad assumerli, pur avendo il miraggio del \”posto fisso\”, chiederanno di monetizzare questo loro diritto in cambio della stabilizzazione.

In tempi in cui il dibattito pubblico pare in tutt\’altre faccende affaccendato e nella speranza che il cuneo fiscale venga ridotto, occorre continuare a monitorare sul limite tra flessibilità e sfruttamento per non fare passi indietro di secoli.

Per questo i sindacati hanno la responsabilità decisiva di portare avanti confronti serrati con le imprese, ma anche con le agenzie per il lavoro. Per un\’azienda come Amazon, infatti, non sarà sufficiente aumentare le assunzioni e ridurre il lavoro \”in affitto\” (che comunque, in questo caso, è paradossalmente la tipologia contrattuale meno \”precarizzante\” rispetto alle altre, visto l\’alto livello delle tutele, tra cui la parità di trattamento e i molti servizi di welfare). E non potrà non diventare un problema per l’agenzia di somministrazione e per l’impresa se un lavoratore in Amazon dorme nello stabilimento, perché l\’avvicendamento dei turni e la lontananza dalla propria abitazione non gli permette di fare diversamente. E dovrà pur essere un problema dell’agenzia di somministrazione e dell\’impresa anche che nessuno, nelle province limitrofe, accetti più un lavoro, costringendola a selezionare le fasce più emarginate e meno formate.

E\’ il momento di richiamare tutti quanti a un senso di maggiore responsabilità.