Vorrei richiamare l’attenzione sulla prova di italiano dell’esame di Maturità e sulla sua enorme importanza, soprattutto nel tempo presente. E’ la prova più importante, perché la lingua con la quale parliamo e comunichiamo al mondo esprime la lingua che parliamo dentro di noi e coincide in qualche modo con la coscienza che abbiamo di noi stessi. Non basta studiarla, non basta conoscere Dante e Petrarca, Manzoni e Leopardi: bisogna usarla, insegnarla agli stranieri, amarla. Ma sopratutto usarla, far la fatica di scegliere le parole appropriate, articolare i periodi cercando di dare loro ampiezza, respiro, forma.
Immaginate una guida turistica che conduca un gruppo di turisti a visitare il Louvre, o gli Uffizi, o i Musei Vaticani, e anziché usare le parole che la storia dell’arte ha trasmesso si permetta di apostrofare i diversi capolavori con un “ci sta”, un “che figata” e così via. Immaginate quello che potrebbe capire, uno spettatore desideroso di conoscere (sempre che ne esistano ancora) ascoltando una guida che si esprime così.
Eppure ci stiamo arrivando. Potrebbe succedere. Se non facciamo attenzione, succederà.
Mi capita sempre più spesso di parlare con persone acculturate, studenti liceali e universitari, e accorgermi che la parte di lingua italiana da loro effettivamente usata è infima, anche se hanno potuto avere accesso, nel corso degli anni, a tutta la sua straordinaria ricchezza. Il loro parlare si riduce a gergo, spesso simpatico, divertente, ma che fatalmente riconduce la circolazione delle parole (e del pensiero) a un ambito umano ristretto, un po’ come accade presso le società tribali, dove ogni tribù parla una propria lingua del tutto diversa da quella della tribù vicina.
Finché le parole circolano in un contesto sociale ristretto, conoscere a menadito la letteratura serve a poco. Dobbiamo tornare alle ragioni che spinsero Alessandro Manzoni a scrivere il suo Romanzo in una lingua che potesse in qualche modo fornire un modello compiuto per la lingua nazionale. Come aveva fatto Dante. Perché tanta urgenza da parte dei nostri due massimi poeti? Forse perché essi sapevano che la lingua non è un medium. La lingua può sanare come uccidere, la lingua che comunichiamo può essere una lingua viva ma anche una lingua morta.
Un gergo, un linguaggio ristretto sono sempre forme di esclusione, indizi di morte, che rendono ancora più complicato il già difficile — difficile perché vero, difficile come tutto ciò che riguarda la nostra umanità — rapporto tra l'”io” e l'”altro”.
Imparare a usare bene la lingua significa imparare a usare bene la propria ragione e la propria intelligenza. Non è solo un problema di lingua nazionale. C’è di mezzo il modo in cui decidiamo di stare al mondo. Ricordo, anni fa, a Barcellona, la commozione mia e di mia moglie nel sorprendere, in una piazzetta del quartiere popolare di Gracia, un folto gruppo di persone che danzava la Sardana. I costumi e le tradizioni catalane, allora, erano aperti a tutti, erano un’occasione di incontro, di conoscenza, mentre oggi queste manifestazioni rischiano di ridursi a rivendicazioni di un’identità escludente. Questo per dire che anche la nostra mente, anche i nostri occhi possono parlare una lingua vera oppure un gergo.
Per tutte queste ragioni bisogna difendere a spada tratta la “composizione in lingua italiana”, il cosiddetto “tema”. Le espressioni “articolo” o “saggio breve” sono suggestive ma fuorvianti perché spostano l’attenzione su forme da imitare (in modo quasi inevitabilmente maldestro), su modelli prestampati, su format anziché aiutare a concentrare tutta la capacità di lavoro, tutta la benedetta fatica di un giovane sulla bellezza, sulla profondità, sulla limpidezza della nostra lingua.