Il reddito di cittadinanza — che il super-ministro dello sviluppo Luigi Di Maio si accinge a calare come prima mossa di politica economica del governo giallo-verde — presenta più di un profilo ostico. La copertura finanziaria si prospetta certamente problematica: soprattutto dopo che il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha preavvertito l’intero esecutivo Conte di voler considerare solo “provvedimenti a saldo zero”. E la Lega, per parte sua, non sembra intenzionata a rinunciare alla “sua” flat tax già nella legge di stabilità 2019: la quale dovrà superare esami Ue oltremodo complicati dalla situazione politica europea.

Le cifre sono già oggetto di confronto problematico: 780 euro al mese sono considerati una cifra troppo alta rispetto agli standard Ue da Carlo Cottarelli e il presidente dell’Inps Tito Boeri si è spinto fino a una stima di 38 miliardi di costo complessivo. Mani numeri non sono il solo ostacolo insidioso per il reddito di cittadinanza. Se n’è reso conto per primo lo stesso Di Maio, quando ha anticipato l’ipotesi che ai percettori sia chiesto di svolgere otto ore alla settimana di lavori socialmente utili, “perché il governo non vuol certo consegnare uno stipendio a chi sta a casa seduto sul sofà”. All’assemblea Confesercenti si è spinto in dettaglio: “Tu hai perso un lavoro e ora devi seguire un percorso per riformarti e reinserirti nel mondo del lavoro, ma siccome sei un padre con figli mentre ti formi io ti do un reddito e in cambio tu dai al tuo sindaco otto ore di lavoro gratuito di pubblica utilità”.

Chiaro solo in apparenza, mentre alcune domande sorgono spontanee e immediate: il reddito di cittadinanza non dovrebbe compensare esattamente lo sforzo concentrato di ri-formazione e re-inserimento? Anzi: il vero “reddito di cittadinanza” non dovrebbe essere l’investimento pubblico sulla ri-formazione e re-inserimento?

Lo schema del vicepremier sembra invece disegnare due o addirittura tre circuiti. Il primo è assistenziale: il disoccupato percepisce il reddito di cittadinanza dall’Inps (ministeri del Lavoro ed Economia) attraverso lo sportello operativo del Comune, il quale (secondo circuito) può/deve poi programmarne, gestirne e monitorarne il “lavoro di pubblica utilità”. Un terzo circuito — evidentemente finanziato in modo distinto — sembra recuperare le politiche attive per il lavoro, capitolo largamente inattuato del Jobs Act, laddove peraltro il “contratto di governo” fra Lega e M5s dichiara la volontà di ritornare al collocamento pubblico. Una macchina pesante, dai costi d’impianto alti, senza una vera priorità.

Il “reddito di cittadinanza” — in un Paese del G7 nel ventunesimo secolo, con le finanze pubbliche non a posto — è un “ticket” di occupazione o ri-occupazione. Su questo vanno concentrate le risorse, valorizzando al massimo quelle che (per fortuna) sono state già dispiegate: come le agenzie per il lavoro e le strutture e i progetti testati dalle Regioni più all’avanguardia, il sistema scolastico, le imprese già pronte a fare formazione-lavoro avanzata via sgravi fiscali come previsto per la fase 2 di Industria 4.0. I “lavoratori socialmente utili” creati negli anni 90 — pur con rispettabili intenti di politica economico-sociale — sono in molti casi rimasti tali: una non-categoria a sé, forse utile alle scadenze elettorali. L’Italia non ha bisogno di “spazzini involontari”, può e deve invece offrire ai suoi cittadini una grande politica di education in un momento eccezionale della sua storia.