Don Carlo Gnocchi incontra Cristo nel volto degli alpini morenti durante la tragica ritirata di Russia, nella Seconda guerra mondiale, e scopre la sua “vocazione nella vocazione”, la strada di un cristianesimo autentico che coinvolgerà migliaia di persone intorno a lui e dopo di lui.

La stessa cosa avviene, negli anni del Primo conflitto mondiale, a padre Spiridon Kisljakov, uno dei tanti cappellani militari russi che – come avrebbe scritto lui stesso anni dopo – “celebravano sul campo liturgie, pronunciavano esortazioni e comunicavano i combattenti ortodossi che poi venivano mandati in prima linea ad ammazzare altri cristiani”. Tra le tante violenze commesse da ambo le parti, in particolare, è l’immagine di un bombardiere tedesco con una grande croce nera sulla pancia che sgancia bombe sui soldati russi – immagine di un “omicidio perpetrato sotto il segno del supremo simbolo cristiano”, a sconvolgere fin nel profondo dell’anima il sacerdote quarantenne e a costringerlo a rivedere tutta la propria vita, vent’anni di ministero che scopre di aver speso al “servizio di un cristianesimo formale e ridotto ad etica”. Com’è possibile benedire le armi, com’è possibile giustificare ogni sorta di violenze secondo una logica mondana, com’è possibile che la fede in Cristo non determini rapporti di compassione e di amore tra gli uomini? Di qui matura in lui la decisione definitiva di “tornare alla libertà della vita evangelica”, alla centralità di Cristo vivo e incontrabile nell’uomo, in ogni uomo.

L’esperienza della violenza e del dolore permettono a padre Spiridon di leggere – in controcorrente con la mentalità dell’epoca – la guerra mondiale come una catastrofe planetaria, come una crisi globale del cristianesimo e della civiltà umana, come un accecamento della società di fronte alla banalità del male e alla tentazione di un paganesimo pratico. Ma soprattutto di cominciare un cammino nuovo, che lo porterà a fondare proprio nell’ottobre 1917 una fraternità dedicata a “Gesù dolcissimo”, che conterà ben presto, nonostante restrizioni e persecuzioni, migliaia di membri e accoglierà tra i suoi membri anche alcuni evangelici, luterani e cattolici.

La Chiesa ortodossa russa sta riscoprendo solo da poco questa figura, di cui è stato recentemente pubblicato per la prima volta lo scritto più importante, Confessione di un sacerdote davanti alla Chiesa. Questo testo padre Spiridon non lo scrisse semplicemente per rievocare la propria vita e missione, e neppure per condannare una pratica ecclesiastica vigente, ma in vista di una purificazione della Chiesa: lo sottopose infatti al Santo Sinodo, e poi al Concilio della Chiesa russa, per contribuire a trovare risposta agli interrogativi fondamentali sulla vita cristiana e sulla responsabilità del cristiano nella vita personale e sociale. 

Nel fitto della catastrofe della guerra e della rivoluzione si trovò un uomo che non ebbe paura di rivolgersi ai suoi confratelli affermando che “la causa principale della miscredenza del popolo e della spaventosa decadenza morale della gente è nel vergognoso commercio che facciamo della religione, nella nostra meccanica e morta attività pastorale… nella nostra indifferenza di burocrati al Cristo vivente”; e che ebbe il coraggio di esortare i suoi figli spirituali a “vivere sempre in Cristo, ad ardere per Lui di amore cordiale e soprattutto a non venir mai meno, neppure di uno iota, al Discorso della montagna di Cristo”.

Ciò che è valso per don Gnocchi e per padre Spiridon nei due conflitti mondiali del XX secolo può ben valere anche nella nostra epoca di “guerra mondiale combattuta a pezzi”, per usare un’espressione di papa Francesco. Tanto più che la Chiesa, ai nostri giorni, indica con chiarezza la direzione in cui andare. Sta a noi “ardere” oppure fumigare, soggiacendo alla tentazione di percorrere la via del comodo e della chiusura, accodandosi a politiche di opposte tendenze che fanno però gli stessi giochi e ottengono facili consensi giocando su debolezze, paure, connivenze con pregiudizi e accuse. Il coraggio della radicalità di padre Spiridon – vissuta in tempi che non erano certo più facili dei nostri – può almeno ridestare la nostalgia della statura umana autentica, della grandezza per la quale siamo fatti, anche se il “nanismo” morale e spirituale da cui siamo circondati vuol spacciarsi per normalità.