Andate su Google-Immagini e digitate: rievaulx abbey: vi comparirà una serie di fotografie raffiguranti le imponenti rovine di un’abbazia medievale. Provate poi a immaginare cosa doveva essere quell’enorme luogo di preghiera e di lavoro adagiato sul fianco del fiume Rie, nel nord dell’Inghilterra, ove più di seicento monaci cistercensi convivevano sotto la guida del saggio abate Aelredo. Non è certo tra i santi più noti, ma una recente biografia (Pierre-André Burton, Aelredo di Rievaulx, Cantagalli-Eupress), poderosa ma di facile lettura, può ora introdurci alla sua conoscenza.
Ma non parlo di Aelredo (1110-1170) perché è uscita questa pregevole biografia, bensì perché mi pare che il carattere tipico della sua personalità e santità — è chiamato “doctor amicitiae” — sia particolarmente necessario ai nostri giorni. Il trattato L’amicizia spirituale è forse la sua opera più celebre e tutti gli studiosi gli riconoscono il merito di aver valorizzato — all’interno del grande fiume della spiritualità cistercense, di per sé attenta alla dimensione affettiva della fede — l’importanza, appunto, dell’amicizia.
Chiariamo subito che l’amicizia di cui parla Aelredo — attingendo dalla sua propria esperienza — non è un sentimento, sebbene di sentimento sia colorata, addolcita, vivificata. L’amicizia è un certo modo di guardare le persone che scopre e privilegia la tensione a convergere in unità, senza che vengano negate né appiattite le differenze. La prima e indispensabile unità è quella dell’io. Sembrerebbe ovvia eppure è generalmente dall’assenza di amicizia con se stessi che si scatenano pulsioni, pretese, chiusure e prevaricazioni che rendono inquieta la nostra esistenza e pertanto difficile ogni convivenza. L’unità all’interno della persona, dice Aelredo, non si ottiene con grandi sforzi ascetici, ma scoprendo che Dio si è fatto così vicino all’umanità da assumerla in toto; a partire da questa impensabile unità umano-divina Egli si fa nostro “amico”, cioè compagno nella lotta per la ricomposizione armoniosa in noi di ciò che altrimenti sfuggirebbe in direzioni sghembe o addirittura confliggenti.
L’io intento a questo cammino di unificazione di sé, si accorge facilmente che vi sono coinvolti gli altri che la vita gli mette a fianco. Chi si ritira in un monastero vive questa tensione unitiva come compito quotidiano: si prega e si lavora insieme, si condividono tutti i beni, si valorizzano le preferenze inserendole nell’armonia generale, si accettano i rapporti difficili in forza dello scopo comune. A garanzia della speditezza del cammino e a protezione dalle sempre possibili deviazioni erronee sta il padre comune dei monaci: l’abate. È la funzione che Aelredo ha esercitato per decenni, privilegiando sempre la dolcezza della misericordia al rigore della disciplina.
Il cerchio dell’amicizia si allarga poi a tutto il contesto sociale e anche politico che sta attorno all’oasi monastica, che — appunto — non è più un’oasi ma un esempio, un pungolo, un giudizio per il mondo così spesso (allora non più di ora) in guerra. Per questo Aelredo si è buttato come paciere nell’arena delle lotte civili che laceravano il suo tempo e magari coinvolgevano su fronti opposti amici e familiari.
Non occorre che aggiunga parole per giustificare quanto simile amicizia sia oggi estremamente necessaria, a tutti e tre i livelli che ho ricordato. E se le rovine di Rievaulx inducono un po’ di nostalgia, come di fronte ad un sogno infranto, d’altro canto stanno lì a dimostrare, graniticamente, che se l’amicizia è stata possibile per sant’Aelredo lo è anche per noi.