A una settimana dal suo varo, il cosiddetto “decreto dignità” è già finito ai margini del dibattito pubblico. Fra malumori e imbarazzi, è rimasto qualche scampolo di polemica politico-sindacale, con il vicepremier Luigi Di Maio a difendere il suo primo provvedimento più nel metodo (“cominciamo a cambiare”) che nel merito delle misure:  mentre la stessa Lega, partner di maggioranza di M5S, guarda già al passaggio parlamentare di conversione del decreto per modificarne almeno i contenuti. Il Sole 24 Ore – quotidiano di Confindustria – si è trovato senz’altro a riflettere l’insoddisfazione aperta di una parte sociale, ma è un fatto che i consueti approfondimenti tecnico-normativi si siano forzatamente concentrati sui nodi creati dal decreto: non su soluzioni offerte o nuove opportunità. Di cui è davvero difficile trovar traccia in un testo peraltro ancora provvisorio.



Il decreto si riduce in effetti ad abrogare qualche pezzo di Jobs Act, che non a caso è la “cosa interessante” subito rilevata dal segretario del Cgil Susanna Camusso. È stata tolta flessibilità, anzitutto, al nuovo regime delle tutele crescenti in entrata, con il ripristino delle cosiddette “causali” per i contratti a termine oltre i 12 mesi: passo simbolico di un depotenziamento improvvisato e parziale della riforma elaborata dal centrosinistra. Nulla a che vedere con un tentativo di rivisitazione agganciato a nuove ipotesi di politica del lavoro: solo un mezzo passo indietro tattico e affrettato, con effetti soltanto negativi.



Quello di breve periodo – la disincentivazione del potenziale di generazione occupazionale per i giovani insito nel Jobs Act – è forse meno grave di quello prospettico:  lasciar trasparire nell’opinione pubblica interna e internazionale che il governo giallo-verde vorrebbe re-irrigidire in modo strutturale il mercato del lavoro, ma è diviso, tecnicamente fragile, comunque incerto e timoroso. In attesa di lanciare il “reddito di cittadinanza”, l’esecutivo Conte non si mostra comunque veramente interessato a promuovere dinamiche positive nel mercato del lavoro. Senz’altro un brutto vedere quando Mario Draghi –  custode (italiano) dell’euro – sollecita  “fatti” dalla nuova maggioranza politica a Roma.



Ma i “fatti” li attendono soprattutto i 485mila italiani fra i 15 e i 24 anni che risultavano disoccupati al marzo scorso: o i 781mila nella fascia successiva (25-34), con sei milioni di inattivi nella fascia aggregata. A tutti costoro il decreto dignità non ha restituito neppure i “voucher” – la cui abolizione è stata l’ultimo scalpo ideologico preteso dalla Cgil dal governo “amico” del Pd – e ha invece cominciato a rialzare un muretto attorno alle agenzie del lavoro, reduci da una lunga marcia iniziata con la riforma Treu, proseguita con quella firmata col sangue di Marco Biagi e conclusa con il Jobs Act. 

L’unica vera riforma dell’ultima legislatura era stata realizzata per metà (quella normativa), mentre una seconda parte – quella cruciale delle politiche attive per il lavoro – avrebbe dovuto essere l’impegno strategico del nuovo governo: senza piccole speculazioni post-elettorali sulla vera emergenza Paese. Invece a un mese dal suo insediamento come super-ministro dello Sviluppo e del Lavoro, Di Maio ha cominciato a smontare la prima parte del Jobs Act e ha ignorato obiettivi e strumenti individuati dalla seconda. Non c’è da stupirsi se un titolo di giornale ha parlato di pensosa “indulgenza” del Quirinale verso un provvedimento che non aveva veramente nulla di urgente. Anzi.