Mahmoud, un italiano vero

La storia di Mahmoud e Shaza, che dalla Giordania sono venuti a vivere a Milano, dimostra che la convivenza e il dialogo è possibile anche tra culture diverse. GIORGIO VITTADINI

Vai a capire cosa accende la scintilla nel cuore dei ragazzi. Genitori e insegnanti si arrovellano quotidianamente dietro a questa domanda. Moltissime micce le accende senz’altro il calcio (basta vedere quanti non hanno rinunciato a seguire il campionato del mondo nonostante l’Italia non si sia qualificata…). Mahmoud Asfa ne sa qualcosa. Giovane diplomando alle superiori, nel 1982 segue i Mondiali dalla sua casa in Giordania. L’epopea della squadra italiana lo entusiasma, e su di lui esercita un forte fascino la figura del presidente Sandro Pertini. Vedere un capo di Stato esultare sugli spalti, discutere allo stesso modo concitato con chiunque gli capiti a tiro, giocare a carte con l’allenatore e i giocatori sull’aereo – tutte istantanee ancora indelebili nella memoria di noi italiani – gli fa prendere una decisione: vuole continuare i suoi studi in Italia.

Che Paese deve essere quello con un presidente simile? Il principale ostacolo è il padre, che immagina per lui un futuro negli Stati Uniti, ma Mahmoud lo convince abilmente, nascondendogli quale sia la scintilla iniziale del suo desiderio e argomentando che l’Italia è il Paese dell’arte e della storia dell’architettura. In Italia diventa architetto e apre un suo studio. Anche il Destino ha le idee chiare per lui, questa volta in affari di cuore. Tornato a casa per un breve periodo, la mamma gli comunica che le piacerebbe presentargli una ragazza, figlia di un professore di letteratura inglese di Amman. “Chi, Shaza?, le chiede lui”. Non si era mai dimenticato quella bimba e quel nome, un po’ inusuale, da quando, all’età di dieci anni, aveva accompagnato suo cugino a congratularsi con il professore per la nascita della figlia Shaza.

Quando la rivede, lei è diventata una bella ragazza di diciassette anni, lui è un giovane neolaureato, piuttosto timido. Nessuno intorno a loro forza nulla: lui si è proposto, lei dovrà decidere in libertà. Le gira intorno molto discretamente e forse proprio questo conquista Shaza. Si sposano e vanno a vivere alle porte di Milano. Shaza è giovane, viene da una famiglia agiata in cui è cresciuta serenamente senza troppe difficoltà. L’Italia è però un altro mondo, e il matrimonio, un’altra vita. Le manca la famiglia, le manca tutto. Piange, chiama sua mamma ogni giorno e spesso dice al marito che vuole tornare ad Amman. Tante volte sono sul punto di fare i biglietti, ogni volta rimandano la decisione, fino a che Shaza rimane incinta.

A quel punto in lei scatta qualcosa. Sente dentro di sé una forza fino allora sconosciuta: è quella che viene dalla sua bambina, ma anche quella che scopre come parte di se stessa, come donna libera che ha tutte le carte da giocare per non farsi mettere nell’angolo dalla vita. Le cose piano piano cambiano, negli anni nascono altri tre bambini. Alla Casa della cultura musulmana di via Padova trova amicizie, sostegno e condivisione della fede che il marito, capo carismatico per tanti fratelli di fede, non si stanca mai di proclamare come dimensione di pace, di apertura, di solidarietà.

Non è facile per nessuno dare spazio alle proprie convinzioni profonde, quelle che come un fiume carsico danno linfa alla vita. Ma bisogna scoprirle, condividerle, viverle. Così Mahmoud, Shaza e i tantissimi come loro che non solo vogliono vivere in pace nel nostro Paese, ma desiderano dare il loro contributo per costruire una società più giusta e più equa per tutti, si ritrovano ogni giorno a combattere con chi li osteggia: perché sono musulmani o perché non lo sono abbastanza.

Qualche giorno fa il più piccolo dei loro figli, Omar, dieci anni, arriva a casa pensieroso: papà, mi hanno detto che sono uno straniero, perché? Hai la cittadinanza giordana, ma non ancora quella italiana, che però arriverà tra poco, non preoccuparti, risponde Mahmoud al figlio pensando di consolarlo. Ma Omar è incredulo: stai scherzando, vero papà? Il bambino, sempre contento di andare a scuola e leader nella sua squadra di calcio, “preso” come suo padre dalla “scintilla” del pallone, forse aveva pensato ingenuamente che questa passione condivisa con i compagni lo rendesse già uno di loro.

Decisamente consapevole di cosa significhi far parte di una “nuova generazione” è invece la figlia maggiore, Nibras, 23 anni, studentessa di giurisprudenza all’Università Statale. La religione, così come gliel’hanno insegnata i suoi genitori e come l’ha condivisa con gli amici della Casa della cultura musulmana, è un rapporto con Dio che rende liberi. Si sente felicemente milanese e felicemente musulmana, libera di prendere il bene di entrambe le culture. Di recente ha frequentato un corso di diritto ebraico, perché si è resa conto che non ne sapeva niente. Anche Mohammed (21 anni), Tamara (16 anni), come Nibras e Omar si considerano italiani. Durante un viaggio in Giordania il padre ha chiesto ai figli se avessero voluto vivere lì. E loro, in coro, con grande candore: papà, se volete rimanete tu e la mamma, noi torniamo nel nostro Paese, l’Italia!

La vita della famiglia Asfa intanto va avanti, come quella di tante altre famiglie, come parte di un tessuto sociale che vive le sue sfide e non rinuncia alle sue speranze. Shaza, vivace e appassionata, rimprovera con poca convinzione il marito perché vorrebbe che passasse più tempo a casa, mentre lui lavora tanto e si dedica molto al sostegno della comunità musulmana. Ma i suoi occhi svelano senza equivoci quanto sia fiera di lui. C’è tanto da fare tra le persone: far fronte a bisogni di ogni tipo, da quelli materiali a quelli spirituali. Ma soprattutto c’è da condividere, infondere speranza e amore tra le persone, desiderio di dialogare e di capire. C’è da conoscere, imparare e crescere. Ci sono tante persone da incontrare, attività educative e sociali da mettere in piedi. Per questo da anni chiedono di poter avere un luogo adeguato in cui realizzare tutte queste attività e per pregare, superando la precarietà e i disagi con cui devono fare i conti nella sede di via Padova 144.

Come tante altre donne, Shaza non rinuncia al suo corso di Acquagym. Indossando una muta, per coprirsi, come desidera fare perché “questa tradizione è parte di me e ciò che sono non può offendere nessuno”. Qualcuno ogni tanto la guarda male, ma lei è gentile, non si scoraggia, cerca il dialogo, vuole creare ponti senza rinunciare a ciò in cui crede. Quando fa il pane lo dona alle sue vicine, nel circondario sono cresciute nei suoi confronti tanta confidenza e tanta benevolenza. Basta conoscersi. Sembra semplice. E in effetti lo è.

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