Forse non è stato un caso che, all’inizio di un’altra settimana importante per la politica economica, ambedue i maggiori quotidiani italiani abbiano riservato commenti qualificati a una specifica emergenza italiana: il deficit di education al Sud, l’esigenza prioritaria di moltiplicare gli investimenti in formazione nell’area del Paese dove la disoccupazione giovanile è più grave. Mentre i toni della campagna elettorale tendono a sfumare e il governo è atteso alle prime scelte economico-sociali, sembrano emergere ipotesi nuove di consenso: non scontate, non ideologiche, non partisan.
Ha colpito leggere due economisti liberisti come Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera abbandonare alcuni paradigmi usuali – il riduttivo legame causa-effetto fra crescita del Pil e occupazione, il sospetto pregiudiziale verso gli investimenti pubblici – e affrontare non solo in chiave “macro” il forte segnale politico-sociale lanciato dall’elettorato meridionale. I giovani disoccupati al Sud non possono essere lasciati ai tempi e ai modi del mercato, perché in concreto quest’ultimo equivale oggi a territori sempre più deserti di imprese e invece spesso più controllati dal crimine. Un nuovo “intervento straordinario” è dunque raccomandabile, anche se certamente non può essere pensato come replica della Cassa per il Mezzogiorno più di mezzo secolo dopo.
Nel ventunesimo secolo, nessuna economia “sussidiata” sarà mai competitiva. Nessun posto di lavoro (nessun “reddito”) può essere creato o mantenuto per decreto. Nessuno Stato può più rivestire gli abiti dell’imprenditore in perdita strutturale. Una “Repubblica fondata sul lavoro” – un sistema di amministrazioni centrali e locali, imprese, soggetti not-for-profit e corpi intermedi – può e deve invece formare o ri-formare in tempi ragionevoli “cittadini-lavoratori” competitivi. Può e deve fornire loro quella vera pari opportunità che è anche autentico vantaggio competitivo per l’Azienda-Paese: un pacchetto aggiornato di conoscenze e competenze. E un rilancio sinergico del sistema formativo e delle politiche attive per il lavoro sullo strategico scacchiere meridionale può emergere come momento propulsivo di una politica economica non ossessionata da cifre e parametri.
Il passo prioritario è senz’altro colmare un gap evidente negli score formativi fra Nord e Sud. Onofri e Tomassini su Repubblica hanno citato dati Pisa-Invalsi che quantificano nell’ordine del 20% (coerenti con le rilevazioni Ocse). mentre altre statistiche alzano fino al 40% il divario conseguente nella produttività del lavoro, tallone d’Achille dell’intera Azienda-Italia. Anche per i due economisti né la flat tax elettoralmente focalizzata al Nord né il reddito di cittadinanza orientato alle attese del Sud sono risposte reali alla domanda di nuovo sviluppo al Sud, riflesso di un generale voglia di ripresa. C’è anzi il rischio di avvitamenti. Un “giovane cervello” non viene trattenuto al Sud dal reddito di cittadinanza e non resta a studiare neppure all’università se questa non ha standard concorrenziali. Analogamente, la flat tax tende a rilanciare investimenti e occupazione dove l’impresa è già robusta e lo diventa sempre di più: non dove l’impresa è gracile.
E’ il capitale umano – non quello finanziario – la risorsa scarsa e critica, l’infrastruttura debole su cui investire al Sud (lo ha rilevato – già prima del voto – il Rapporto 2018 della Fondazione per la Sussidiarietà dedicato proprio ai giovani del Sud). Non è il Ponte sullo Stretto a poter ri-unire l’Italia mediterranea all’Europa. Lo può essere – forse – il turnaround dell’Ilva, se si trasforma in un caso-pilota di education a tutto campo: per chi ci lavora, per chi ci lavorerà in futuro, per chi ci abita attorno, per tutti coloro che dirigono il sistema-Taranto. Innovazione tecnologica (anche sul fronte ambientale), valori aggunti professionali, salti di qualità nella capacità di relazione con investitori e mercati nuovi: è questo che hanno bisogno di apprendere i giovani del Sud (cioè tutti i giovani italiani che non vogliono lasciare il loro Paese).