Di fronte a quanto le cronache ogni giorno ci propongono sul fronte immigrazione è facile sentirsi obiettivamente spaesati. In tanti abbiamo una percezione chiara di quale sia l’atteggiamento giusto, cioè umano, di fronte ad un fenomeno che ha spesso risvolti drammatici; eppure è difficile restituire a livello pubblico le ragioni di questo approccio “civile”. È un momento in cui le ragioni del bene soffrono di afasia. O meglio, è un momento in cui il bene non riesce a trovare e ad esprimere con chiarezza le proprie ragioni.
Quando chi la pensa bene scende in campo cercando di opporsi all’offensiva dilagante dei “malpensanti”, quasi sempre finisce con l’accampare ragioni che appaiono velleitarie di fronte alla brutalità delle ragioni oggi vincenti. Perché questo accade? La prima risposta è semplice: perché il fenomeno dei migranti viene vissuto ultimamente come strumentale alla politica, da una parte come dall’altra. Così nella parte buona non interessa tanto proporre e rendere forti le proprie buone ragioni (magari a suon di fatti), ma interessa conquistare spazi. O meglio interessa presidiare spazi, visto che in questa situazione c’è davvero poco da conquistare. Si indossano le magliette rosse non perché ci sia un reale interesse al destino dei migranti, ma perché c’è la preoccupazione di smarcarsi e di tener pulita la propria fedina morale rispetto alla volgarità dominante. Si rivendica la propria nobiltà etica per un giorno, e la storia finisce lì. Il giorno dopo si torna in camicia bianca.
La seconda risposta può essere questa. Il bene ha peccato di idealismo e di semplicismo nelle sue analisi: cioè si è affidato alla logica elementare secondo la quale le rotte delle migrazioni sono rotte che si generano spontaneamente sulla spinta del sogno di una vita diversa da parte di centinaia di migliaia di persone. Certamente è così, ma altrettanto certamente non è solo così. L’immigrazione viene alimentata da interessi altrui, che vedono una possibilità grande di business. E questo non vale solo per gli scafisti o di chi ha preso il loro posto. Questo vale per chi spinge a partire, ma spesso, purtroppo anche per chi accoglie.
Questa osservazione suggerisce una terza risposta. Chi sta dalla parte del bene non ha avuto il coraggio di guardarsi dentro. Di vedere che tra le proprie fila in tanti parlavano bene ma razzolavano molto male. In nome dell’emergenza sono così stati legittimati modelli di accoglienza non solo fallimentari ma molte volte umilianti per chi veniva accolto. Come dimostra ad esempio un’inchiesta di Marco Dotti sui Cas (i Centri di accoglienza straordinaria), pubblicata da Vita.it: si è scatenata una sorta di ingordigia che ha portato alla creazione di centri molto grossi senza preoccuparsi di fare investimenti su personale sufficientemente preparato. Il risultato è stato quello di creare una pressione sociale sulle comunità che si sono trovate a convivere con queste enclave di richiedenti asilo spesso abbandonati a se stessi nelle strutture. Insomma, il bene troppo spesso si è autolegittimato a priori. E ha perso per strada le proprie ragioni.
C’è un’ultima risposta che non dà motivazioni ma forse può rianimare il vero popolo del bene. L’Italia è un paese molto permeabile alle parole d’ordine ma alla prova della realtà è assai diverso da come si presenta. Così fuori dall’arena mediatica, fuori dal gazzarra ideologica, cioè nelle relazioni normali di tutti i giorni, nel lavoro di quotidiana costruzione sociale, dalle scuole al mondo del lavoro, dai quartieri alle parrocchie si può toccare con mano come il bene continui a nutrirsi in una rete fittissima di piccoli gesti che hanno ben chiare le proprie ragioni.