Sergio Marchionne non tornerà mai più al lavoro. Unica certezza in un drammatico e del tutto inaspettato precipitare delle sue condizioni di salute. Nella gran quantità di parole dette e scritte, necessariamente data l’importanza del personaggio e del ruolo, ve ne sono due impreviste che, a farci attenzione, colpiscono: ingiustizia e fragilità. La prima è nel messaggio di John Elkann, dove parla di “una situazione che ci lascia un senso di ingiustizia“. La seconda nella cronaca da Zurigo di Maurizio Crosetti su Repubblica di ieri (pag. 5), dove annota che “così, tra migliaia di pazienti dell’ospedale universitario, Marchionne è diventato d’improvviso il più illustre e fragile“. Colpiscono perché sono come due piccole note dissonanti, non stonate ma dissonanti, rispetto alla partitura prevista per questi casi: vita e opere del soggetto (col rischio di toni celebrativi e addirittura di coccodrilli anzitempo), riassetto del potere e nuovi scenari nel futuro del gruppo.



E’ naturale che John Elkann senta come un’ingiustizia ciò che è accaduto all'”uomo illuminato” con cui ha collaborato per 14 anni diventandone insieme discepolo e amico. Vien fuori una dimensione umana, in un mondo che spesso di umano mostra poco. E’ umano sentire ingiusto ciò che fa torto alle immagini che ci siamo costruiti e ai progetti che abbiamo messo in campo. Il fatto è che la realtà non è possesso delle nostre immagini e dei nostri progetti; il senso della vita non è nella loro attuazione; e la stessa capacità di intraprendere e innovare dipende dalla capacità di adeguarsi al cambiamento e di trasformare la crisi in opportunità. Di quest’ultimo aspetto in particolare Marchionne ha dato esempio positivo in diverse occasioni con scelte coraggiose e lungimiranti, come il salvataggio della Fiat “tecnicamente fallita”, l’acquisto di Chrysler d’accordo con Obama, la conversione produttiva degli stabilimenti italiani dall’utilitaria alle auto di maggior valore aggiunto, il cambiamento delle relazioni sindacali, le innovazioni contrattuali, l’uscita da Confindustria, il rilancio della Ferrari (ahi Vettel, quante ne combini…).



Marchionne, l’italiano più globale, il manager più Superman… il paziente più fragile. Raccontata così, sembra un rovesciamento da uno stato dell’essere a un altro, diametralmente opposto, dallo stato performante allo stato dell’inanità. E in effetti nel sentire contemporaneo prevalente la vita ha un senso se è in grado di perseguire con la miglior efficienza e spregiudicatezza la riuscita. Viceversa la vita è al massimo commiserabile, comunque inutile e poco degna. Invece nella fragilità, come hanno insegnato in vario modo grandi filosofi (da Agostino a Pascal, da Kierkegaard a Heidegger) e anche grandi psichiatri (ad esempio Eugenio Borgna) si adombrano valori e risorse fondamentali di sensibilità, mitezza, desiderio di pienezza, senso del limite, solidarietà e comunione con chi soffre. Nelle nostre giornate piene di cose da fare una via l’altra, è praticamente la norma non accorgersi della fragilità e delle ferite dell’anima e del corpo della gente con cui abbiamo a che fare, e addirittura di noi stessi.



Riconoscere la fragilità e recuperarne il senso è una fondamentale esperienza di realismo e di equilibrio. Il Marchionne super-eroe e il Marchionne fragile non sono due persone, ma la stessa. Non sono neanche due fasi separate della vicenda umana: c’è fragilità umana nel nostro essere grandi e grandezza umana nel nostro essere piccoli.

Famosissimo questo passaggio di Pascal e non inutile rileggerlo: “L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura, ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe anche allora più nobile di ciò che lo uccide, perché egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui. L’universo non ne sa nulla”.

Comunque auguri di guarigione a Marchionne. Una volta, scherzando, disse che se avesse smesso di fare il manager gli sarebbe piaciuto fare il giornalista. Beh, nel caso: benvenuto nel gaio ordine nazionale di quelli che “sempre meglio che andare a lavorare”.