Con l’ultimo fine settimana di luglio l’Italia, quella che ovviamente può, entra davvero in vacanza: tutto si ferma fino a Ferragosto, fino al calcio di inizio della serie A. Le ferie, in realtà, rappresentano una sorta di detonatore per qualcosa di più profondo: finalmente si può dire legittimamente “sono stanco”, “stacco un po’”, “mi riposo”. È evidente che dopo un anno intenso di pensieri e di preoccupazioni sia necessario definire un tempo in cui coltivare il piacere, praticare la libertà, ma a dire il vero c’è di più: infatti quella stanchezza annunciata, quel bisogno di staccare conclamato, non è soltanto qualcosa di fisiologico o di naturale. 

Spesso l’andare in vacanza fa infatti da alibi alla fatica che si fa a stare nella vita: in definitiva molti partono, se ne vanno o restano a casa, non perché “abbiano diritto alle ferie”, bensì perché non si ha alcuna ragione per restare, per continuare a lavorare. Theilhard de Chardin affermava che la grande malattia del nostro tempo fosse la perdita del gusto del vivere, l’assenza di ragioni per restare, per fermarsi, per accettare ancora una volta il proprio posto nel disegno dell’esistenza. Senza scomodare Marx, è di qualche mese fa il motivetto dello Stato Sociale che auspicava “una vita in vacanza”, quasi a confermare l’incapacità di trovare un sapore nella realtà, nel lavoro o nello studio, che valga la fatica di rimanere, di sudare, di non desiderare altro che essere lì, che vivere.

Si parte, dunque, non solo perché si è stanchi — e quante volte in vacanza ci si stanca ancor di più — ma anche perché si è smarrito il motivo per cui, se ci fossero la possibilità e le energie per farlo, varrebbe la pena non andare, ma perseverare, continuare a lavorare, per ritrovare di più se stessi, per non smettere di crescere e di capire. È davvero questa la grande frattura del moderno occidente: la crisi della vocazione, del rapporto con la realtà come vocazione, come compito attraverso il quale incontro me e guarisco, divento più uomo. 

Ma allora che cosa fare? Evitare di partire? Resistere eroicamente al proprio posto di lavoro, negli ingranaggi del sistema? Certamente no: la risposta alla questione della vocazione non è né il trattenersi né il lasciarsi andare. La risposta alla questione della vocazione sta nella possibilità di fare un’esperienza così vera delle cose, del riposo e delle vacanze, che anche se uno fosse partito per le ferie senza alcuna ragione per restare al proprio posto, avrebbe incontrato — o almeno sperimentato — qualche ragione per ritornare, per ripartire.

La vera vacanza non è quindi quella in cui si stacca, ma quella che ti mette nel cuore l’intuizione di una promessa così grande che ti viene voglia di tornare a casa solo per vedere se è vera, solo per verificare se quanto intuito tra le montagne o al mare sia vero, se il Mistero della vita — in fondo — mantenga la parola data. Col desiderio di poter toccare con mano che l’esistenza non è una fregatura e che a ciascuno è stato affidato sicuramente il posto migliore per fare un cammino, per iniziare ad essere felice. 

Per questo ha senso augurare buone vacanze a tutti, perché l’estate possa essere quel tempo e quello spazio in cui il cuore si riempie della nostalgia di una libertà davvero spesa, di una curiosità seriamente impegnata. Perché l’estate possa essere quel momento in cui le cose vissute donano all’Io il bisogno più strano, l’esigenza più contraddittoria ma più vera: l’attesa di settembre.