“La politica non è morta: è solo nascosta e sbaglia chi pensa che la tecnologia possa distruggerla o sostituirla. La libertà resta irriducibile a qualsiasi algoritmo , ma deve ridiventare progetto sociale”. Giulio Sapelli ha voluto concludere così – assieme a Mauro Magatti. la consueta summer school organizzata a Milano dalla Fondazione Ceur sotto la direzione scientifica della Fondazione per la Sussidiarietà. I linguaggi digitali della nuova “Metropolis” – dai social media all’intelligenza artificiale – sono stati al centro di una densa due giorni seminariale. dal quale è emersa una consapevolezza forte: un’era si sta chiudendo, per molti versi in modo brusco e inatteso. Del futuro – e forse anche del presente – non c’è quasi una riga scritta, fondata, realmente condivisa. Viviamo fra infiniti like espressi ogni istante su infiniti fatti e opinioni, ma non esistono più o quasi common: posizioni culturali elaborate che aggiungano il necessario valore umano e sociale alla basicità tecnologica, “irresponsabile” nella sua pretesa oggettività.

Common vuol dire rinuncia all’egemonia totalizzante della tecnologia – ha sottolineato Magatti – e ricerca nuove responsabilità condivise. La tecnologia – come in passato la religione e la politica – insegue un sogno assolutizzante di farsi potere monopolista delle vite delle persone. Da un lato le lusinga con la prospettiva di risolvere ogni problema, dall’altro le stordisce con la produzione di masse sterminate di dati, che tuttavia ricordano la Babele biblica. “La digitalizzazione sta consentendo progressi materiali straordinari, ma senza pari avanzamenti nell’educazione delle persone e nelle loro strutture di mediazione socio-politica soccomberemo alla globalizzazione lasciata a se stessa”.

“Ci può salvare un’educazione cooperativa, che recuperi la civiltà giudaico-cristiana della parola trasmessa, della ragione che allarga lo sguardo sulla realtà, non della tecnica che lo restringe”. E’ lo stimolo di Sapelli, per il quale la “questione tecnologica” s’impone con brutalità al declino parallelo di due “post-liberismi”: quello che ha offerto una moltiplicazione infinita dei diritti e quello che offerto la tecnologia come leva per l’investimento e invece ha radicalizzato la rendita di posizione. La ricostruzione di un nuova società della libertà è anzitutto una scelta: ad esempio quella di affidare o meno a un algoritmo il potere giudiziario. Oppure quella di ridurre – oppure no – lo sviluppo economico al binomio ideologico privatizzazione-liberalizzazione. “Sta a noi decidere se vogliamo essere ancora liberi di determinare il nostro destino”.

Machine learning e data mining sono le parole d’ordine che ci illudono e possono tradirci. In un mondo in cui i like sono sempre più spesso assimilati a “verità” non esiste un algoritmo perfetto in sé, avulso dall’uomo che ci sta dentro e dietro: non esistono una scienza e una tecnologia prive di premesse culturali. Per questo è pericolosa la politica che si traveste da big data, che pretende di governare immergendosi nella tecnologia e guidando l’assalto finale contro l’intermediazione dei corpi sociali.