NEW YORK — Il 4 luglio 1776 John Hancock, Thomas Jefferson, John Adams, Benjamin Franklin e gli altri rappresentanti delle 13 Colonie firmavano la celebre Declaration of Independence, opponendosi all’Inghilterra ed a King George III, affermando principi e diritti, definendo nuovi orizzonti e mettendo tutto nelle mani di Dio.
Un duecentocinquanta anni dopo King George e l’Inghilterra non preoccupano più, principi e diritti vacillano, si aggrovigliano, si trasformano, e sull’esistenza di nuovi orizzonti si comincia ad avere qualche dubbio. L’unico che ancora se la cava egregiamente è Dio, o, non vi piacesse la parola, il Mistero che guida la realtà.
Ci pensavo proprio ieri mentre leggevo delle dimissioni di Anthony M. Kennedy, Justice della Supreme Court, uno dei nove “giudici supremi” degli Stati Uniti d’America, ovvero quelli che hanno l’ultima parola sull’interpretazione della Costituzione e la congruità ad essa delle leggi del paese.
Sapete come funziona la cosa? L’ho già spiegato in altra occasione, ma per darvi un’idea di massima diciamo che i giudici della Corte suprema sono profondi conoscitori della legge, chiamati a vigilare sulla legittimità di ciò che accade nel paese. Sono eletti a vita e rimpiazzati quando vengono meno (decesso o dimissioni) con una scelta che spetta al presidente in carica. Questa scelta dovrà passare al vaglio di specifiche commissioni attraverso un lungo e spesso arduo percorso procedurale fatto di capillari screenings del candidato. Per poi arrivare al voto del Senato.
La Corte, ed il processo che porta alla nomina di un nuovo giudice, fa parte di quello che in gergo si chiama sistema di check and balance, ovvero una serie di fattori di equilibrio socio-politico che a volte, come in questo caso, sembra rasentare la più pura fortuità. Trump ha già avuto la possibilità di scegliere un giudice supremo (Gorsuch) e adesso le dimissioni di Kennedy gli offrono la chance di dare alla Corte suprema una impronta, un volto — se volete banalizzare, una maggioranza — che potrebbe resistere per trenta e passa anni. Perché è lui chiamato a scegliere i candidati, e perché al momento il suo partito repubblicano detiene la maggioranza del Senato e lo farà almeno fino alle Midterm elections di novembre. Così in una società che sembra inevitabilmente allontanarsi a grande velocità dai cosiddetti valori tradizionali che l’hanno guidata per 250 anni, si potrebbe consolidare una Corte suprema potenzialmente pronta a sfidare quello che il potere politico e la mentalità comune dovessero portare avanti. In altre parole, checks and balances, controlli e bilanciamenti tra ruolo del Parlamento, potere esecutivo del presidente, possibili ribaltoni delle elezioni di Midterm (in cui il partito del presidente potrebbe perdere la maggioranza e quindi il presidente perdere potere rispetto alle Camere), nomina dei difensori della Costituzione …
Che un giudice supremo venga meno, se ne torni in cielo o alzi bandiera bianca per limiti fisici non è cosa programmabile, non può essere ricondotto a strategie di partito. Mi verrebbe da dire che questo dei checks and balances è un’applicazione geniale di rispetto della realtà. Quattro anni di mandato alla Casa Bianca possono trascorrere senza che il “personale” della Corte suprema si sposti di una virgola; il modo cambia, la Corte no.
Ma proprio mentre pensavo queste cose la realtà mi ha regalato un altro sorprendente sussulto. Amy Coney Barrett è una professoressa di legge e giudice, ed è uno dei personaggi che Trump incontrerà in questi giorni nella sua ricerca del sostituto di Anthony Kennedy. Ma Amy è anche una donna di profonda fede, la mamma di sette figli e la nipote di un nostro carissimo amico. Beh, in verità la conosciamo anche noi perché nella lunga lista dei tanti che abbiamo ospitato a casa nostra c’è pure lei.
Dopo quasi 250 anni i valori non stanno tanto bene, i principi traballano, ma per fortuna il Mistero che fa tutte le cose ha in mano il bandolo della matassa.
Happy 4th of July, and God bless America.