“Il popolo ebraico è stato a lungo una civiltà agro-pastorale. È solo a un certo punto della nostra storia che siamo diventati artigiani e commercianti, medici e finanzieri, un popolo di imprenditori, scienziati e professionisti”. Rony Hamaui, top manager bancario ed economista della Cattolica, parla durante la prima giornata della 55esima Sessione estiva del Sae, ad Assisi. Il Segretariato per le attività ecumeniche ha scelto quest’anno di riflettere sul tema “Le Chiese di fronte alla ricchezza, alla povertà e ai beni della terra”. Ad Hamaui è stata chiesta una testimonianza su un tema profondo e delicato: i nessi fra l’universo religioso ebraico – i suoi testi sacri, la sua dottrina della fede, la sua spiritualità – e il ruolo protagonistico recitato dal popolo d’Israele nello sviluppo tecnologico ed economico.
Uno dei passaggi-chiave della suo intervento è in parte sorprendente. “Molti storici attribuiscono la svolta alla diaspora e alle molteplici sfide e restrizioni che il popolo ebraico ha dovuto affrontare, in Medio Oriente, in Europa, nel nuovo mondo. Molti enfatizzano la pressione esterna con l’esigenza delle comunità ebraiche di mantenere la propria identità nell’evoluzione della civiltà. Ma se andiamo alla radice, scopriamo l’emergere sempre più deciso – nel nostro popolo – di una fiducia nella forza della cultura e dell’educazione. Vi sono state transizioni storiche in cui alcuni ebrei si sono staccati dal loro popolo non per le persecuzioni o per altre imposizioni esterne, ma perché era troppo impegnativo tenere il passo con un popolo che aveva posto l’educazione continua al centro della proprio modo di essere”. La Shoa – dice sobriamente Hamaui, sollecitato da una domanda – è l’ultimo frangente di 17 secoli di confronto fra un popolo e il continuo avvento della modernità. E se il popolo ebraico ha vinto anche la Shoah ed è tuttora protagonista della storia – anzitutto del progresso scientifico e tecnologico – è perché non mai ha cessato un attimo di investire in education il proprio capitale umano. Tanto quanto ha creduto in Dio.
“L’economia sostenibile? C’è già. Chi non ci crede è chi resta fermo all’equazione statica e rigida uno meno uno uguale zero. Al contrario uno più uno può fare tre”. Leonardo Becchetti, economista di Roma-Tor Vergata, scuote la Summer school del Sae, che nella sua seconda giornata si ritrova nel Monte Frumentario, uno dei mille banchi di pegni inventati dal francescanesimo il finire del Medioevo. Le due mani forti degli ultimi secoli – quella invisibile del mercato e quella fin troppo visibile dello Stato – non bastano o addirittura non servono più per produrre sviluppo: ce ne vogliono almeno altre due. Alla sussidiarietà – ai nuovi valori aggiunti creati ad esempio dalla responsabilizzazione sociale delle imprese – si vanno via via aggiungendo le correnti della “generatività”: solo un’economia permanentemente innovativa e capace di valorizzare appieno e collettivamente le “capabilities” di uomini e donne, giovani e anziani, assolve davvero alla sua funzione storica. “L’economia della felicità” – dice l’esperto internazionale Becchetti – non è uno slogan a effetto: non si può solo misurare, si può e si deve costruire.