La ferita che ha aperto il crollo del ponte Morandi a Genova non è solo simbolica: una regione, una città, una comunità è fisicamente tagliata in due, lacerata. E’ difficile da spiegare a chi non è ligure o non ha consuetudine con la Liguria, ma le poche strade strette di cui è dotata la regione, le loro curve e i loro tunnel sono fin dalla tenera età compagni di viaggio della fantasia, dei profumi e dei sogni che popolano l’infanzia di ciascuno. Il “ponte di Brooklyn” — così lo si chiamava da piccoli, tra ironia e stupore — era il ponte delle partenze, degli arrivi, delle code, della familiarità con la città. Vedere quel vuoto in mezzo a quei due piloni è vedersi portato via, tutto d’un tratto, un pezzo di sé, della propria storia, della propria identità.
E’ un’assenza ciò che domina Genova oggi, come la ferita di un lutto, di un qualcosa che finisce, che non c’è più. Quando succedono queste cose vorresti avere il potere di fermare il tempo, vorresti avere la possibilità di piangere, di capire, di comprendere. E invece no: il tempo va avanti, le persone continuano la loro vita e tu – superata una certa solidarietà iniziale – rimani lì, solo con quel vuoto e quel dolore. Tante persone, di fronte a quel numero di vittime che crescono e a quelle macerie che minacciano periodi lunghi di difficoltà, maturano rabbia, provano disgusto, cercano colpevoli. Altre stanno in silenzio, più o meno dignitosamente piangono, a volte – più semplicemente – non trovano la forza di parlare. Qualcuna chiama sul banco degli imputati la politica, qualcun’altra i gestori delle infrastrutture, qualcuna addirittura – succede sempre in questi frangenti – convoca Dio. Gli chiede conto di dove fosse la Sua Onnipotenza mentre tutto avveniva, dove fossero i Suoi miracoli, le Sue Grazie, mentre bambini inermi perivano, famiglie si laceravano e una città era condannata ad un fardello troppo grande per passare inosservato.
Curiosamente Dio, invece di difendersi, solitamente sembra tacere. Questa volta, però, non è andata così. La tragedia del “ponte delle condotte” è avvenuta infatti alla vigilia di Ferragosto, alla vigilia dell’Assunzione al Cielo di Maria. “Una vecchia storia che sappiamo già”, qualcuno potrebbe dire. Una storia in cui la madre di Gesù, come tutte le donne, muore. E, dopo quella morte dolorosa per tanti, viene inaspettatamente chiamata da Suo Figlio a godere per prima della sorte eterna che la fede promette a tutti gli uomini: la resurrezione del corpo, l’ascensione al Cielo di tutta la Sua storia.
E’ così che Dio parla: non fermando le leggi della fisica che gli uomini non sanno ancora gestire nel costruire le loro strade e i loro ponti, non interrompendo il ciclo della biologia che prevede la morte anche ingiusta, ma – improvvisamente – ricominciando. E’ questo che fa Dio ogni giorno: ricomincia. E ricomincia non da un’altra cosa, ma da quel dolore, da quella storia, da quella ferita in cui tutto sembrava concorresse a gridare la parola fine. Dio non ricomincia da un’altra parte, Dio ricomincia da te. Ed è questo che è straordinario del cristianesimo: non il favoleggiare un altro mondo dove tutto va bene, ma la possibilità che questo mondo, questa sofferenza, questa apparente “fine” sia in realtà l’inizio di tutto.
Dio risponde all’assenza di quel ponte con la Sua Presenza. Presenza che ha le mani dei soccorritori, gli occhi dei bambini che continuano a giocare in mezzo alle macerie, il cuore di tanti – vicini e lontani – che tacciono, polemizzano o urlano. Il nostro paese esce da mesi intensissimi, mesi in cui sono divampati atteggiamenti, istinti, rabbie, paure che sembravano averci condotti sull’orlo del baratro, per i pessimisti, o alla vigilia della resa dei conti, per gli ottimisti. Quello che è successo a Genova – e il fatto che sia successo alla vigilia dell’Assunzione di Maria – ci dice che tutto quello che è accaduto in questi mesi, in queste settimane, in queste ore, è il punto da cui Dio riparte, è il punto da cui ricomincia tutto, da cui – come ha ricordato con infinita paternità il cardinale Bagnasco – il Signore effonde la Sua consolazione, il Suo nuovo inizio.
A Maria non è stata risparmiata la morte, ma la morte non è stata l’ultima parola. Così a noi non è risparmiato quel ponte, le storie che impareremo a conoscere nelle prossime ore di chi non c’è più, il dolore lancinante, la paura del futuro, nemmeno il male e il peccato: nulla ci è risparmiato! Ma tutto è assunto, è toccato, perché – se lo si vuole – si possa ripartire. Dopo il diluvio, dopo la schiavitù, dopo l’Esilio, Dio offre sempre al Suo popolo una nuova possibilità. La offre a chi Lo riconosce, a chi nella disgrazia non s’indurisce come il cuore del Faraone in Egitto, ma si affida, impara a chiedere.
Questa è la grande occasione dell’uomo contemporaneo: prostrato dalla storia, prostrato dai suoi simili, prostrato dalle sue fragilità, egli può ricominciare a chiedere, può ricominciare a dire Tu ad uno Sconosciuto di cui ha sempre sentito parlare, ma che in quest’ora gli si fa vicino e gli tende la mano. E’ una questione di libertà. Alzare gli occhi e vedere Maria, Regina di Genova, grata e gioiosa dopo la morte, è come una caparra che la Chiesa ci offre, è come la possibilità di scorgere già il chiarore dell’alba quando tutto sembra ancora notte.
Dunque si può fare, ci si può alzare, si può ricominciare: possiamo salutare chi non c’è più, possiamo assumerci le nostre responsabilità, possiamo guardare tutto il nostro male, possiamo costruire un altro ponte. Quello che ci serve è tutto qui, è la nostra libertà. D’altronde, ben si sa, le ferite diventano cicatrici. E le cicatrici raccontano quello che abbiamo amato, i luoghi dove la Grazia di Dio ha ricominciato. Le cicatrici diventano porta, in latino Ianua, Genova. Porta della terra, porta del Cielo, porta di un mondo ancora tutto da scoprire. E che, attraverso tutto, ci sta già aspettando.