Il desiderio di conoscere

Riparte il Meeting di Rimini. Ma la sua vera ripartenza va cercata nel desiderio che spingerà anche quest'anno tanta gente a venire qui. Come si spiega e dove si fonda? COSTANTINO ESPOSITO

Oggi riparte, con una nuova edizione, il Meeting di Rimini. Ma la sua vera ripartenza va cercata nel desiderio che ha spinto e probabilmente spingerà anche quest’anno tanta gente a venire qui. Il desiderio, cioè, o anche solo la semplice curiosità, di conoscere un po’ di più che cosa c’è al mondo che possa renderlo un luogo bello in cui vivere; che cosa è accaduto e accade nella storia, che permetta di continuare a camminare e a sperare. Non per rifugiarsi in un’oasi; al contrario, proprio per verificare se vi è all’orizzonte della nostra esistenza e nella vita della nostra società un motivo concreto e presente per cui valga la pena l’avventura del quotidiano. 



Mentre scrivo queste cose, penso alle vittime innocenti del crollo del ponte di Genova, una ferita terribile non solo per quella città ma per tutti noi, che non oscura, anzi rende più evidenti tutte le altre ferite che segnano drammaticamente il nostro Paese, l’Europa e il mondo intero, dall’emergenza profughi alla disoccupazione, dalle diseguaglianze sociali ed economiche alla confusione su ciò che può veramente unirci in una convivenza spesso sconnessa e conflittuale, dai conflitti armati alla povertà diffusa. 



Ecco, chi propone il Meeting ha a cuore, essenzialmente e fondamentalmente, la possibilità di riaccendere una domanda sul significato di sé e delle cose: non un problema che nasca dalle astratte analisi degli ideologi, ma un’urgenza, un bisogno che ciascuno ritrova – concretissimo e il più delle volte non teorizzato – al fondo di ogni gesto e di ogni impegno. Ma è da qui che dipende la possibilità che ciò che facciamo nella vita non ci “esaurisca”, ma al contrario ci faccia “fiorire”.  

E se è vero che questa è una domanda che non ci inventiamo noi arbitrariamente, ma costituisce il cuore inevitabile del vivere, il suo struggimento più intimo (anche se sempre il più nascosto), allora essa può mantenersi viva, può rinascere, non nonostante ma dentro le sfide della realtà, solo se qualcosa o qualcuno la ridesta. 



Solo se incontriamo o reincontriamo un volto amabile, uno sguardo di affezione e di preferenza alla nostra vita noi possiamo ridestarci all’amore. Solo se ci facciamo colpire da un dato o un evento che attiri il nostro interesse possiamo incrementare la nostra conoscenza. Il nostro “io” è talmente costituito come un rapporto con altro da sé, che solo quando un altro accade, e accadendo lo chiama, il nostro io può diventare ogni volta di più sé stesso. 

E questo vale non come un discorso individualistico, ma anche e a maggior ragione nella vita sociale: se non ci càpita di trovare o ritrovare (sì, ritrovare perché non lo si trova mai una volta per tutte) un senso condiviso per cui stare insieme al mondo, possiamo anche mettere i nostro bel pilota automatico, ma avremo perso, vivendo, noi stessi.

Quest’anno il titolo del Meeting è una frase che don Giussani rivolse ad un suo giovane amico che nel Sessantotto – esattamente cinquant’anni fa – gli aveva detto che bisognava seguire “le forze che muovono la storia”, in quel caso un progetto di rivoluzione culturale e sociale. E la risposta di don Giussani fu appunto che le vere forze che muovono la storia sono le stesse che rendono felice l’uomo. Perché il cambiamento del mondo comincia dal cuore dell’uomo.

Per questo all’inizio del Meeting di quest’anno è importante, almeno per me, ripropormi la domanda: ma cos’è, sulla base della mia esperienza, che può rendermi felice? Anche qui, non si tratta di definire astrattamente cos’è la felicità, ma di capire se e quando abbiamo verificato che essa è possibile per noi. Cosa sarebbe infatti vivere senza aspettarsi più di essere felici?

Ma – ecco il punto cruciale – noi tutti siamo portati a credere che la felicità sia l’esito di una nostra strategia o la conseguenza dell’avverarsi di certe pre-condizioni. Insomma che la felicità stia alla fine, posto che un giorno ci si arrivi, oppure che duri come un lampo, ogni tanto, e poi svanisca nel rombo di un tuono che dilegua lontano. E se invece la felicità fosse all’origine? Se essa segnasse l’inizio del nostro stare al mondo? Non l’inizio cronologico, ma l’inizio che accade ogni istante, l’inizio che è o può essere ogni momento. 

Come una volta ha scritto il grande Agostino d’Ippona, nelle Confessioni, tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, desiderano essere felici, ma per desiderare la felicità essi devono averne già una qualche nozione, altrimenti come farebbero a desiderare ciò che non conoscono neanche? E in che modo l’hanno conosciuta? Perché nella loro “memoria” è presente un’esperienza originaria: il godimento del vero (gaudium de veritate), cioè potremmo dire un gusto quasi innato nello scoprire il senso delle cose; e non un senso qualsiasi, ma un senso che, scoperto, ci faccia appunto “godere”, dia la gioia al vivere. È la scoperta del significato presente e vivente della realtà che può farci percorrere la via della felicità: che non è una fuoriuscita dal mondo, ma appunto, come avrebbe detto Hannah Arendt, un “amore per il mondo”.

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