Il Meeting al tempo del populismo. L’accostamento è inevitabile, ma al Meeting di populismo non c’è traccia. E’ il frutto di una scelta compiuta ormai da tempo: stabilire una distanza dalla politica, che non significa disinteresse o evasione, ma piuttosto ricerca di un rapporto più profondo con il tempo in cui viviamo. E’ infatti di Dio che si cerca soprattutto di parlare, come si è visto nel bel confronto tra don Julián Carrón e Salvatore Natoli sul libro di Giobbe.



Ma parlare di Dio vuol dire anche parlare dell’uomo. Il confronto su Giobbe è stato accompagnato da immagini e testimonianze sulla Shoah e sul dolore di tanti in ogni parte del mondo. E’ stato ritmato dal canto dolente di due giovani siriani che ha reso presente la tragedia della loro terra. Che parlare di Dio significhi anzitutto parlare dell’uomo lo ha fatto emergere anche Mario Melazzini con un’asciutta testimonianza sulla sua vita dopo la scoperta di essere malato di Sla. Dopo aver lungamente compulsato le foto ingiallite della sua esistenza precedente che non sarebbe più tornata — ha raccontato — ha capito che il suo problema era soprattutto un problema di “sguardo”: come guardare la sua nuova vita di malato, costretto a dipendere da tutti per ogni cosa. E’ la storia di Giobbe, che solo costringendo Dio a svelargli quale sguardo abbia su di lui e sulla sua miseria trova la pace e riprende il cammino. Di questo sguardo su ciascuno, sugli uomini, sulla storia c’è oggi un grande bisogno: noi, infatti, non lo conosciamo.



“Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice” recita il titolo dell’edizione 2018. Molti oggi pretendono rabbiosamente la propria felicità, ma nessuno sembra avere un’idea di quali forze muovano la storia e in quale direzione la stiano spingendo. Ecco il problema del populismo, un insieme di voci assordanti che non dicono nulla perché non hanno nulla da dire. In Italia, dopo la tragedia di Genova è partito il coro delle insensatezze, affermate anzi urlate con grande decisione e aggressività. Colpire i colpevoli prima di sapere chi sono; nazionalizzare tutto, no anzi privatizzare tutto; ricostruire, no anzi distruggere… E non appena questo coro ha cominciato a diminuire di intensità, subito è partita un’altra non-discussione su 177 rifugiati sequestrati su una nave italiana contro ogni dritto e legge.  



Gli echi di questo chiasso sono arrivati in modo molto attutito o non sono arrivati affatto all’interno del Meeting. E’ il segno di una diversità, tanto più importante perché non cercata e non esibita. Quest’anno, è stato notato, è difficile trovare aspetti eclatanti o sorprendenti in una manifestazione che in passato ha fatto spesso parlare di sé per presenze inattese o per novità vistose. Un’edizione dimessa? In questa apparente normalità, il Meeting 2018 propone ogni giorno discorsi, testimonianze, interventi, dando spazio al confronto, offrendo contenuti, suggerendo questioni. La sua diversità, rispetto al contesto circostante, è proprio nel costituire uno spazio dove contano anzitutto le parole e la storia. 

Ma questo contesto esiste. Riuscire oggi a fare qualcosa fuori dal circo populista è indubbiamente già di per sé una vittoria. Ma non basta. Giusto tenere fuori la politica dal Meeting, ma ignorare la politica è un lusso che non possiamo permetterci. Poiché è difficile capire quali forze muovano la storia, vince oggi la politica che si disinteressa della storia e che quindi non costruisce ma distrugge. Populismo è sinonimo di vuoto ma questo vuoto è pericoloso, aggressivo, violento. Se il Meeting è un momento per cercare lo sguardo di Dio sull’uomo, c’è poi bisogno che dopo il Meeting chi ha partecipato — insieme a chi non ha partecipato, ad altri credenti e anche a non credenti — comunichi e diffonda uno sguardo diverso in grado di cambiare davvero la realtà.