Dopo un’intera vita docente da precaria, la maestra Rosella Bertuccelli da Viareggio, di anni 66, è diventa insegnante di ruolo alla vigilia della pensione. Per quanto stupefacente non è però questa la notizia. Infatti, ahimè, la signora è in buona compagnia: dei precari che entrano in ruolo, il 14% ha più di 60 anni. Ma non è finita: il 33% ha un’età compresa tra 51 e 60, il 29% tra 41 e 50. Insomma il 47% sono ultracinquantenni, il 76% ultraquarantenni. Sotto i 30 anni c’è solo il 4%. E’ la scuola italiana, bellezza. Compresa l’area Ata, quella del personale amministrativo, tecnico e ausiliario: proprio due giorni fa un coetaneo della maestra Rosella, Giovanni Pellegrino di anni 66, esodato nel 2010 e reduce della “Fornero”, bidello a tempo determinato a tre mesi dalla pensione ha ottenuto il posto in una scuola di Torino.

La notizia è invece questa: la maestra Rosella, davanti al funzionario competente ha pronunciato la parola rinuncio: “Rinuncio, il mio posto datelo a un giovane”, lasciando l’ufficio scolastico con due buchi nel naso,  incerto se interpretare il pronunciamento come una sorta di promessa battesimale (Rinunci a Satana? – Rinuncio! – E alle sue opere? – Rinuncio!) o come una battuta surrealistica di cabaret o di teatro dell’assurdo.

Uno può dire: brava, finalmente una che ha capito che è finita l’epoca del posto fisso. Oppure: brava, un gesto di generosità encomiabile, largo ai giovani. O viceversa: ma è matta? non lo sa che rischia di smenarci qualcosa sulla pensione?

Forse c’è da considerare una parola che viene prima di calcolo e anche prima di generosità: ed è la parola dignità. Il “rinuncio” di Rosella Bertuccelli da Viareggio, anni 66, risuonato nello stanzone dell’Ufficio scolastico, fa venire in mente di primo acchito la dignità del soldato Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) de La grande guerra, che allo sprezzante ufficiale austriaco, anziché fare la spia, rovescia addosso il suo “E allora senti un po’, visto che parli così… Mi te disi propi un bel nient! Hai capito? Facia de merda!”. Il Gioàn Busacca, come il suo commilitone romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi), non era un eroe, anzi, era un pavido meschinello, un io annichilito e a un passo dal tradire pur di salvare la ghirba. Ma in quel momento, provocato, il suo io riceve uno scossone che lo fa ridestare e il senso del suo valore prorompe libero dal ricatto delle conseguenze (i due muoiono fucilati). Meno iperbolicamente, si può dire che la maestra Rosella richiama la più feriale dignità di un guareschiano Giobà, o della Vincenzina di Jannacci. Giobà, il bizzarro del paese, che sa tutto di ciclismo ma rifiuta di presentarsi a Lascia o Raddoppia e rinuncia alla probabile vincita perché “ho la mia dignità”. Vincenzina che sta davanti alla fabbrica col foulard che non si usa più, con l’umile tenace umiltà della quotidiana fatica affrontata con dignità.

La dignità dell’io è ciò che più d’ogni altra cosa ti spinge a fare bene e costruire. Ciò è clamorosamente importante nel campo della scuola, dove tutto si gioca sulla passione educativa.

Nella scuola italiana ci sono 750mila insegnanti in ruolo e altri 715mila che ogni anno stanno in ansia sino a metà settembre in attesa di un contratto (fino a giugno, quindi decisamente meno che annuale): 160mila vengono chiamati, il rimanente mezzo milione e passa resta con le pive nel sacco. L’anno dopo, per tutti, si ripete la giostra. Per molti sino ad età lavorativa avanzata, per alcuni a vita. E’ il penoso risultato di anni e anni di una gestione centralistica, frammentaria, miope, bucrocratico-clientelare e sindacal-clientelare. Non va bene. Evidente che serve una svolta radicale. Può cercare di farlo un governo consapevole che istruzione e ricerca da un lato, infrastrutture dall’altro, sono i principali investimenti di un paese che voglia guardare al futuro. Non ci piace sentire che la Gronda di Genova è un’idea morbosa. Né che si mostrino i muscoli per mandar su l’applausometro. Né ci basta che la parola dignità sia messo nel titolo di un provvedimento.