Entrando li abbiamo di fronte, in una fotografia stampata a scala gigantesca: a sinistra Alberto Giacometti, a destra Francis Bacon. È una fotografia tutta orizzontale e i due sono agli estremi dello spazio, con un grande vuoto in mezzo. Stanno visibilmente dialogando tra di loro, in quella che è l’unica occasione vera in cui si incontrarono, nel luglio 1965 a Londra. Non sapremo mai quello che si stavano dicendo. Ma il vuoto che li separa ci appare denso di quelle loro presenze, di quel loro sguardo terso, di quella concentrazione del tutto indifferente alla presenza (per altro del tutto casuale) del fotografo. Questa fotografia di enorme suggestione apre la grande mostra che a Basilea la Fondazione Beyeler ha dedicato a Bacon e Giacometti (quella che vedete qui sopra è una variante scattata nella stessa occasione). Ci sono pochi dubbi che per la grandezza dei due personaggi e per la qualità delle opere e del percorso espositivo questa sia da considerarsi la mostra dell’anno (chiude purtroppo domenica 2 settembre). È però mostra dell’anno soprattutto per un altro motivo: perché con Bacon e Giacometti l’arte torna ad affondare, in modo drammatico e assolutamente attuale, nelle grandi domande che toccano la vita e il destino. “Affondare” è il termine più pertinente, nel senso che il loro è un lavoro che va sempre al fondo di quelle domande e delle relative ferite. Non li si vede mai distrarsi dal loro “compito”.

Bacon e Giacometti sono artisti molto diversi tra di loro. Nato in Irlanda l’uno, svizzero di lingua italiana l’altro. Il primo dichiaratamente omosessuale, il secondo sposato ma largamente infedele alla moglie Annette. Il primo in rottura con la famiglia cattolica e con il padre; il secondo invece cresciuto nella venerazione del padre pittore e della vecchia madre che, si racconta, andava a trovare arrivando da Parigi in taxi sino a Stampa, il paese natale. Eppure ci sono tratti quasi casuali ma sorprendenti che li uniscono. Ad esempio hanno lavorato quasi tutta la vita in studi piccolissimi, in condizioni oggettivamente “invivibili”. Bacon stava in 43 metri quadri a Londra, con una stanza contigua che faceva da bagno, cucina e camera da letto. Giacometti a Parigi restò sempre in un mitico studio di 23 metri quadri a Montparnasse, senza acqua corrente, dove faceva posare sino allo sfinimento i suoi modelli. Lavoravano in due “buchi”: e non mi riesce di darne una ragione senonché che quelle erano le loro celle, i loro estremi eremi in cui trovare l’assoluta concentrazione rispetto ad un destino a cui erano chiamati. Tutt’e due erano radicalmente dei solitari, nel senso che non hanno mai avuto allievi, non hanno fatto né tendenza, né scuola: avevano coscienza che le loro erano strade sulle quali ci si inoltra per destino e non per formazione.

Ma il tratto che li unisce in modo radicale è quell’assoluta determinazione nel lavorare sulla figura umana. Bacon e Giacometti non hanno dipinto e scolpito altro che figure e corpi. Hanno indagato, con un impeto e una costanza ossessivi, sul senso e la verità della vita nella sua accezione più fisica. Hanno camminato artisticamente su quella frontiera abissale e misteriosa che è la frontiera tra la vita e la morte, tra l’eterno e il niente, tra la crudeltà e l’amore. Non hanno fatto sconti, non hanno tirato indietro la mano davanti allo scandalo che certe opere potevano comportare. Hanno inabissato la loro arte nel grido sanguinante e così tante volte senza risposte dell’uomo del loro tempo (è proprio sul grido che si apre la mostra con due opere che dialogano in modo drammatico e insieme struggente). Come aveva scritto un critico che è stato amico di entrambi, Michel Leiris, la loro è un’arte che rende sempre presente in modo bruciante ed esplicito ciò che rappresenta. 

In questa loro determinazione si coglie il segno di una fedeltà estrema al loro “compito”, di una moralità imprevista a dispetto dello scandalo di tante immagini. E che ci trasmette ancora un sentimento così profondamente intenso della vita, di cui non si può essere ultimamente grati.