Nella strana, imprevedibile Italia del settembre 2018 è una scelta obbligata tentare collage razionali di rassegne stampa, flash d’agenzia, tweet: individuare fili rossi, seguirli e acciuffarne i capi anche quando sembrano siano destinati a volatilizzarsi nel giro di un altro tweet.

Sabato mattina Il Sole 24 Ore, principale quotidiano economico italiano, ha aperto così la prima pagina: “Di Maio: confermiamo Industria 4.0, non siamo anti-impresa”. Nel sabato di Cernobbio, il leader M5S — nel frattempo diventato vicepremier e super-ministro dello sviluppo — ha rimarcato con un’intervista al giornale degli industriali italiani, il primo anniversario del suo esordio al Forum Ambrosetti: quello che un anno fa ruppe il ghiaccio con le cosiddette élites, italiane ed internazionali.

Nell’arco stretto di qualche mezz’ora, a Di Maio è giunto un tweet-emoticon da parte del direttore generale di Ucimu, Alfredo Mariotti: “Di Maio condivisibile, Ucimu pronta a collaborare, il Mise non dimentichi la nuova Sabatini”. I costruttori di macchine utensili sono naturalmente nell’occhio nel (benefico) ciclone indotto dagli incentivi alla digitalizzazione industriale: ma sono sempre stati i primi a ricordare che l’aumento (reale) del loro giro d’affari grazie a super-ammortamenti e iper-ammortamenti, è la punta di iceberg di una creazione moltiplicata di valore-Paese, in termini di svecchiamento del parco tecnologico, di innovazione competitiva su scala globale, di volano per nuova occupazione 4.0, di periti e ingegneri formati da politecnici e nuovi ITS.

Passano comunque quarantott’ore e le agenzie ri-sparano: “Legge Bilancio: Di Maio, confermiamo iper-ammortamento, Sabatini e bonus R&S”. Quindi è tutto vero: o almeno così sembra (neppure il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha mai smentito le sue promesse favorevoli al prosieguo di Industria 4.0). Il Sussidiario stesso ha qualche motivo per esserne confortato: l’attenzione per la proroga del piano-Paese Industria 4.0 è stato al centro dell’editoriale di mercoledì scorso; tre giorni prima che Di Maio rompesse gli indugi.

Un passo non del tutto scontato, quello del vicepremier: le attese guardavano più a un pressing politico della Lega nel perimetro largo della flat tax. Ma tant’è stato: Di Maio — dopo aver chiuso la partita Ilva, dando un futuro a Taranto, al suo porto, alla sua piattaforma strategica per la siderurgia italiana, all’appetibilità dell’Azienda-Italia per i grandi investimenti geopolitici — ha evidentemente voluto dare un altro segnale concreto di consapevolezza di essere il responsabile della politica industriale di un Paese del G7, seconda potenza manifatturiera della Ue.

Certo, quello che conterà sarà la legge di stabilità stampata sulla Gazzetta Ufficiale. E quello che conta sempre — a ogni scadenza statistica — sono i trend della produzione industriale, del Pil, dell’export e dell’occupazione.

(Ps: Di Maio non se ne deve avere a male quando gli viene dato merito di non aver buttato via né il piano Ilva, né il piano Industria 4.0 nelle linee concepite dal suo predecessore Carlo Calenda. Dovrebbe anzi essere rassicurato dal riconoscimento dell’emergere, dopo cento giorni, di prime capacità visibili di governo politico dell’economia, dopo l’infortunio iniziale del “decreto dignità”)