La promessa che ci manca

<!-- p.p1 {margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 18.0px Helvetica; color: #232323} span.s1 {font-kerning: none} --> La prima emergenza dell'Italia non è il ritorno al passato propugnato da Galli della Loggia e criticato da Polito. Ma salvare ciò che resta della nostra scuola. ANTONIO NAPOLI

“Sapesse Contessa che cosa m’ha detto un caro parente dell’occupazione che quella gentaglia rinchiusa là dentro di libero amore facea professione”. Diciamo la verità, stavolta Ernesto Galli della Loggia fa un po’ la figura del cortigiano indignato, voce narrante della ben nota — almeno per alcuni di noi — canzone di Paolo Pietrangeli, simbolo canoro di quel che resta del ’68 italiano.

È difficile essere irriverenti verso una delle firme più acute del giornalismo italiano, ma stavolta è lui che, nel tentativo di dare un bel pugno nello stomaco ai troppo disattenti lettori del Corriere, fa la figura del nobile decaduto, incredulo di fronte alla maleducazione della società che lo circonda e costretto a vivere in una Italia che definisce semplicemente “brutta”. 

Nell’articolo, Galli della Loggia non nasconde la nostalgia per quanto fossero belli i tempi di una volta, quando solide istituzioni culturali presidiavano il “senso comune” del popolo, mettendolo al riparo dagli improvvidi cambiamenti prodotti dai sussulti democratici. Proprio come spesso accade nelle discussioni infinite che animano i social network, la ricostruzione del passato a cui si presta Galli della Loggia è decisamente edulcorata e, resa priva di contraddizioni, appare come fosse verità indiscutibile, un eden da cui non si capisce bene perché siamo scappati via.

Ma scherziamo? Speriamo di indurre i nostri giovani ad una consapevolezza degli anni passati raccontando simili storie? Ricordando ed esaltando, ad esempio, il ruolo “formativo” del servizio militare, avendolo a suo tempo cancellato con un tratto di penna e peraltro all’unanimità? Oppure sostenendo che abbiamo tanta nostalgia per la Rai di Bernabei, che censurava le gambe scoperte delle Kessler, e ostracizzava Dario Fo per una battuta? O, ancora, evocando quando dalle parrocchie si governavano facilmente le pulsioni rivoluzionarie dei vari Peppone sparsi per l’Italia?

Quanto sia diventato ricorrente rimuginare su un passato che ci raccontiamo ogni volta in modo diverso è stato nuovamente il Corriere a segnalarcelo con un lungo e ragionato articolo di Antonio Polito. Polito sostiene esattamente il contrario di Galli della Loggia, individuando nelle scelte più strategiche dell’attuale governo Lega-M5s una fortissima spinta verso soluzioni del passato, tornate nuovamente comode per fronteggiare la paura che incute la modernità mentre viaggia ad una velocità troppo alta lasciando indietro milioni di persone, soprattutto quelle meno giovani.

Di tutto questo gran discutere del nostro passato glorioso e del nostro futuro incerto, ci rimarrà forse la consapevolezza che la storia non procede sempre in maniera lineare mietendo successi e diffondendo solo benessere. Così come a volte tornare “indietro” non significa necessariamente ammettere che quello che si è ottenuto nel mentre è tutto sbagliato, nulla di quello che è stato già sperimentato e tentato in questi anni di grandi cambiamenti va per forza perso o buttato via.

Torno a tal proposito sull’unico tema che mi sembra fare da comune denominatore alle posizioni di questo acceso dibattito: la scuola italiana appare la vera emergenza, il punto più dolente dell’Italia di oggi. Su questo non si può non convenire. L’abbandono del nostro sistema scolastico ad un destino di marginalità richiede un intervento straordinario. Eppure anche in questo caso il nostro paese appare diviso tra realtà contrastanti. Si va dal successo delle nostre università che scalano le classifiche mondiali al dramma di un’evasione scolastica a due cifre al Sud, dal successo della Developer Academy di Apple a Napoli alla inarrestabile fuga di cervelli italiani in Europa e nel mondo.

Salvare la scuola italiana — e in particolare quella meridionale — è diventato a mio avviso l’impegno più urgente: una promessa d’onore che le classi dirigenti del paese dovrebbe siglare con il fuoco e con il sangue.

Fra qualche settimana, l’Italia televisiva si scioglierà in lacrime guardando la storia di due ragazzine nate in un quartiere operaio di Napoli e salvate da un destino di ignoranza e povertà proprio da una maestra, anch’essa di umili condizioni, ma colta e appassionata alla sua funzione di educatrice. “L’amica geniale” — la serie tv prodotta da Hbo e tratta dal primo romanzo della fortunata tetralogia scritta da Elena Ferrante — ci porterà esattamente dove ci invitano a guardare Galli della Loggia e Polito, ma con quella capacità di unire il paese che oggi solo un prodotto televisivo ben fatto può ottenere. E questo, in chiave di modernità e di un mondo che cambia e non per questo diventa più brutto, dovrebbe pur significare qualcosa a firme illustri del giornalismo nostrano.

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