Il modello Milano dal “fabbricone” alle mille imprese

Dai tempi del "fabbricone" Pirelli di tempo ne è passato: ma non troppo. Milano però ha saputo innovare il suo "modello", integrando nuove e vincendo nuove sfide. GIANNI CREDIT

Milano ha dunque tagliato il traguardo delle 200mila imprese attive sul suo territorio comunale: 30mila in più di quelle che ospitava dieci anni fa, alla vigilia del crack dei mercati finanziari e quindi della lunga recessione italiana. A fine 2007, certamente, categorie come “Smart City” (il 15,3% delle imprese nell’area Centrale-Porta Volta) o “sistema Movida” (1.045 nel solo distretto Garibaldi-Arco della Pace) erano sconosciute al lessico statistico-mediatico ambrosiano. Imprese e movida, lavoro e reddito — e anche un certo modo di governare l’economia locale in una nuova Milano smart — sono state portate dall’Expo, dalla definitiva affermazione globale del Salone del Mobile, dal successo istantaneo di Industria 4.0: dalle mille iniziative gemelle o parallele che hanno saputo interpretare assieme un ritmo nuovo. Una rivoluzione che — come tutte — non è stata affatto una festa di gala. 

A Lambrate, quarant’anni fa, 5mila addetti lavoravano come dipendenti in una singola impresa: la Innocenti, oggi rovina di archeologia industriale. Ma nel 2018 attorno sono rifiorite centinaia di imprese: ormai più di 2mila, con un +10% durante l’ultimo biennio. Poco più a nord, nell’area Greco-Gorla-Bicocca l’effetto-seeding è stato ancora più visibile (+23,2% secondo elaborazioni di dati della Camera di Commercio utilizzati dal Corriere della Sera in una recente newsanalysis). A “No-Lo”, attorno a Via Padova, è evidente anche il potenziale inclusivo di Milano rispetto ai migranti sulle rotte dell’iniziativa imprenditoriale. 

Dai tempi del “fabbricone” Pirelli di tempo ne è passato: ma non troppo. Poco lontano ci sono infatti nuovi giganti (le sedi di Amazon e Microsoft) ma con attorno un nuovo e fitto indotto di società innovative, di sviluppo applicativo. Il nuovo Apple Store, la nuova Fondazione Feltrinelli o Unicredit Pavilion hanno “aggiunto valore” al quadrilatero della moda: non è vero che un’eccellenza è tale se resta ferma e le quattro F italiane (cibo, moda, arredo e meccatronica) non sono patrimonio chiuso ed esclusivo. Milano prova che sono mondi accessibili a nuovi imprenditori. Così come il turismo può fiorire dove prima c’erano le ciminiere e le vocazioni sportive di una città possono diventare “competenze”, impresa e lavoro. E forse non è strano, non è male se le grandi banche della città sono in cronaca per le decisioni da prendere sul futuro sullo Ieo: con il tycoon-martinitt Leonardo Del Vecchio a occuparsi di come a Milano gli ospedali e medical academy d’eccellenza (nel pubblico e nel privato) possono diventarlo ancora di più. 

Meno banker, più medici. Più cuochi — pardon: più chef  — e più ingegneri, ma non più quelli da “fabbricone” (a Brooklyn i web-designer stufi di Manhattan amano definirsi hipster). Per gli economisti: meno lavoratori dipendenti e più autonomi, più imprenditori (gente che offre lavoro ad altri, altrettanto motivati e qualificati). Negli anni 90, l’altroieri; oppure nel 2007 — ieri — nessuno avrebbe immaginato che le cose sarebbero girate così. Eppure Milano non è finita come Detroit. Il “modello” resiste, ha attraversato il Mar Rosso. Perché è cambiato, ha saputo cambiare. Ha saputo restare “modello”: che vuol dire poi non perdere mai di vista chi — da una vita o dal giorno prima — vive e lavora al tuo fianco. Competendo sempre con chi è più bravo. Ma non dimenticando mai che la città è una, la stessa per tutti. 

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