L’ultimo miracolo di San Gennaro

Il Sud, se ci si mette d'impegno, fa miracoli. Anche grazie alla cultura. Come è accaduto a Napoli con le Catacombe di San Gennaro. Una storia di uomini vivi. GIUSEPPE FRANGI

Ieri era San Gennaro. Pochi sino a qualche tempo fa sapevano che il santo ebbe come prima tomba un cubicolo nelle catacombe scavate sotto il Rione Sanità. Da lì venne trafugato dai longobardi e restituito a Napoli nel 1400 per essere custodito in Duomo. Forse per questo su quelle catacombe era calato l’oblio. Ma nel 2006 un gruppo di ragazzi su suggerimento del parroco della Sanità si sono fatti avanti proponendosi di prendere in gestione quel luogo dimenticato. Messo a punto il progetto, due anni dopo quei ragazzi vincevano il bando di Fondazione con il Sud. Erano in cinque e avevano reso visitabili 5mila metri quadri di quell’enorme e straordinario dedalo sotterraneo. 

Oggi l’area è più che raddoppiata, i visitatori dagli sparuti dei primi tempi hanno superato stabilmente i 100mila all’anno. E i ragazzi che lavorano per la cooperativa sono diventati 23. E non ci sono solo loro, perché a cascata attorno a questo cuore segreto di Napoli si sono sviluppate altre attività anche molto innovative, come l’Officina dei Talenti che ha, ad esempio, curato l’allestimento delle luci, uno dei fattori vincenti per la carica suggestiva che comunicano.

Il risultato è che oggi le Catacombe di San Gennaro sono tra i luoghi più visitati di Napoli, certamente tra i meglio gestiti e conservati. Ogni giorno decine di giovani guide molto preparate accompagnano gruppi di visitatori, provenienti da tutte le parti del mondo, in questo immenso reticolo scavato nel tufo. Nel percorso si incontrano anche basiliche sotterranee come quella di Sant’Agrippina, dove si è ripreso a celebrare la messa. Sull’onda sono nate attività solidali, e poi anche un’orchestra, un teatro e ora una casa editrice che esordisce in questi giorni con un libro in cui vengono raccontate le storie di alcuni dei ragazzi delle Catacombe (Vico esclamativo scritto da Chiara Nocchetti, giornalista di 24 anni…). Sono storie di ragazzi che vengono da situazioni che avremmo etichettato come “irredimibili”, in tanti casi figli di spacciatori, e che invece hanno trovato sulla loro strada un’opportunità per uscire da quella situazione senza futuro. 

Si può guardare al fenomeno dei ragazzi delle Catacombe come ad una bella storia, resa possibile dal carisma e dalla carica umana di don Antonio Loffredo, il parroco della Sanità. Oppure si può semplicisticamente spiegarla come un “miracolo” di San Gennaro. Invece questa vicenda non è frutto di condizioni speciali ma di una convinzione condivisa che ha trovato sulla sua strada una rete di soggetti che l’hanno incoraggiata e hanno fatto da supporto (a cominciare da una fondazione che sa muoversi con intelligenza come Fondazione con il Sud). 

Qual era la convinzione condivisa di partenza? Era la percezione che il patrimonio culturale è patrimonio nel senso concreto e non solo ideale o aulico del termine. È dono dei padri. È concreta eredità. Si tratta di una convinzione che è stata vissuta, poi una passione molto partenopea, perché quei ragazzi attorno ai resti di quella che era stata la tomba di San Gennaro hanno percepito di avere a che fare con qualcosa che riguardando la loro storia toccava anche la loro vita: un senso di appartenenza, vissuto però in modo moderno, aperto, organizzato e quindi molto attivo.

La vicenda delle Catacombe di San Gennaro si propone così come un modello replicabile, un’esperienza che fa scuola, che restituisce alla parola cultura, con cui tanti si riempiono vanamente la bocca, tutta la sua concretezza. La cultura c’entra con la vita non tanto perché è un valore ma perché è un’inesauribile opportunità. A volte anche opportunità di rinascita.

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