Si può ragionare su possibili modifiche alla riforma pensioni della Fornero senza essere subito bollati come populisti e anti-europei? Soprattutto: si può immaginare in concreto una “manovra previdenziale” all’interno di una politica economica credibile, in Europa e sui mercati?
Hanno certamente molte motivi per diffidare coloro che alla fine di ogni ragionamento vedono la prosecuzione ininterrotta della campagna elettorale: magari con un continuo rimescolìo di cifre immaginarie fra reddito di cittadinanza, aumento delle pensioni minime e abbassamento dell’età pensionabile. Ed è chiaro che i primi a non vederci chiaro – o a vederci tutto di inattuabile – sono i pignoli tecnocrati di Bruxelles, i leader “falchi” dei Paesi del Nord Europa, e gli investitori istituzionali in BTp spaventati dall’altalena dello spread (come ha denunciato il presidente della Bce, Mario Draghi, all’Europarlamento). Nessuno potrà mai considerare una “riforma della Fornero” fino ché questa si tradurrà in puri tentativi di abbattimento demagogico di un feticcio-austerity o nella distribuzione clientelare di miliardi di euro in deficit “sovranista”.
Diverso sarebbe guardare a una possibile manovra previdenziale in termini di leva strategica per il sistema-Paese: certamente oltre l’orizzonte corto di una legge di stabilità da rattoppare in termini politicamente spicci. Una “questione previdenziale” più correttamente posta studierebbe le opzioni tecniche e politiche di anticipo strutturale di uscita dal lavoro per gli “over 60” per aprire spazi di ingresso altrettanto strutturali nel mercato del lavoro per “under 30”.
Significherebbe – al pari di ogni possibile strategia-Paese infrastrutturale – assumersi anzitutto impegni definiti per raggiungere obiettivi definiti in tempi definiti. Vorrebbe dire essere credibili con i propri cittadini-elettori-contribuenti sia con gli altro Paesi-membri Ue ai quali chiedere – in ipotesi – una finestra poliennale per pilotare un grande avvicendamento di risorse umane nel sistema produttivo: forze-lavoro ringiovanite, meglio formate, più produttive e di per sé inizialmente meno costose. Vorrebbe dire condurre in porto con successo un grande confronto politico interno: trovando punti d’equilibrio finanziario fra chi è già pensionato, chi dovrebbe o vorrebbe pensionarsi, chi è nel pieno del proprio percorso lavorativo e chi invece non l’ha ancora iniziato e vuole iniziarlo. Vorrebbe dire, prevedibilmente, scoprire una volta di più che il reddito di cittadinanza non è l’opzione migliore per favorire una ripresa strutturale. Che ad esempio un mix di politiche attive per il lavoro e di “manovra previdenziale” sarebbe più efficace per spendere bene il 2% che la Ue sembra disposta ad accordare all’Italia
Certo, non hanno torto gli scettici: un passaggio di questo generare difficilmente è praticabile senza un Parlamento forte e funzionante al centro di un sistema altrettanto solido di corpi intermedi, capaci di maturare grandi scelte, grandi patti in profondità nel tessuto socioeconomico. Ma l’Italia e l’Europa contemporanee sono nate settant’anni fa su questo peculiare tessuto civile. Non c’è alternativa al ricercarne e ricostruirne le radici.