America senz’anima

New York diventa sempre più bella, ma è un bello senza carne e sangue. Si può costruire senza fame e senza pianto, aspirare all'infinito senza soffrire? RIRO MANISCALCO

NEW YORK — Erano anni che non ci salivo su. Sul “Top of the Rock”, probabilmente la più bella veduta aerea di New York City, a bird’s eye view, a 360 gradi dall’alto. Impressionante. Più bella anche di quella che si ha dallo storico Observation Deck dell’Empire State Building, perché dal Top of the Rock vedi pure l’Empire, che è sempre un bel vedere. E poi sei proprio nel cuore di New York City.

Con un ascensore ipervitaminizzato voli in alto per settanta piani al 30 di Rockefeller Plaza, la torre principe tra le 19 “creature” che John D. Rockefeller fece costruire nel centro di New York all’inizio degli anni Trenta mentre le economie americana e mondiale precipitavano in un baratro in cui avrebbero ristagnato per quasi un decennio. Ma John Rockefeller non fu l’unico a reagire ai tempi duri rischiando in proprio. Tra gli altri c’erano anche due tizi di nome Raskob e Smith che di quegli stessi tempi fecero costruire l’Empire con il solo obiettivo di andare più in alto dei rivali che avevano appena eretto il Chrysler (completato nel 1930).

In alto, sempre più in alto, di più, sempre di più, e sempre più in fretta con un implacabile senso di urgenza (ad un certo punto la costruzione dell’Empire cresceva di un piano al giorno!) e con il cielo come ultimo ed unico limite. Una impavida sfida all’infinito che coloro che hanno voluto questi colossi hanno reso esplicita in parole ed opere. Basta guardare la statua di Prometeo al centro della Rockefeller Plaza, come fosse il punto di origine di tutto questo costruire. Prometeo, il titano amico dell’umanità e del suo progresso al punto di sfidare gli dei rubando loro il fuoco per portarlo agli uomini, inimicandosi ferocemente Zeus. Oppure Atlas, capace di reggere sulle sue spalle l’intera volta celeste, ricurvo, ma indomabile mentre fronteggia la Cattedrale di S. Patrick’s dove altri uomini di fronte a quella stessa volta celeste si inginocchiano. O i mosaici, i murales voluti sulle pareti di queste immense ed ardite opere dai visionari che hanno immaginato queste immense ed ardite opere, affamati di gloria ancor prima che di denaro. Dai mosaici e murales che ancora fanno mostra di sé come “Intelligence awakening mankind” (l’intelligenza che ridesta l’umanità) a quelli che sono stati “oscurati per motivi politici”, come “Man, controller of the Universe” (L’ Uomo, colui che controlla l’Universo) di Diego Rivera che avrebbe dovuto dominare la lobby dell’edificio principale se l’artista messicano non avesse pensato di infilarci dentro Lenin. Al messicano Rivera (ad un certo punto marito di Frida Kahlo) Rockefeller era arrivato dopo aver incassato i “no” di Picasso e Matisse, ma in America il comunismo più che repulsione non ha mai suscitato. Il murales venne completato, pagato e prontamente ricoperto una volta rilevata la presenza di Vladimir Ilyich Ulyanov,  meglio noto come Lenin. 

Insomma, l’altro giorno sono salito con mia moglie su tutto questo “credo nel supremo valore dell’individuo” (parole di John D. Rockefeller) e come due bambini ci siamo messi a guardare questo bosco di case e palazzi fitto fitto che è New York City.

Mi è subito tornato alla mente il ricordo di una visita alle “Windows on the World” (Finestre sul mondo), quel che c’era in cima alla Twin Tower Nord, quando ancora le Twin Towers le avevamo. Un amico in visita, guardando l’universo newyorkese da quel 107esimo piano commentò: “…e pensare che trecento anni fa qui c’erano solo le tende degli indiani”.

Costruiamo, continuiamo a costruire. Guardi NYC dall’alto e vedi un grattacielo che sta spuntando là, ed eccone un altro più in qua, ed un altro ancora, un altro … Per chi? Per cosa? Profitto, immagino, oggi certamente più per il profitto che per quella gloria (o vanagloria) che presuntuosamente inseguivano John Rockefeller, Raskob e Smith. Oggi ci sono i “developers”, “quelli che sviluppano”. Grandi investimenti, grandi opere, grande spettacolarizzazione.

Nel quarto di secolo che ho condiviso con questa città dura e strabiliante, tutto è diventato esteticamente più bello, ma con la “b” minuscola, come fosse un bello quasi finto, troppo lontano da me per toccarmi veramente, per essere veramente mio. Un bello senza più carne e sangue, senza più quella pretenziosa eppure prorompente “urgenza di infinito”.

Solo dopo esser venuto via da Midtown mi son ricordato del bassorilievo di Giacomo Manzù che se ne sta all’ International Building del Rockefeller Center, “L’Immigrato”. Una mamma a piedi nudi, stanca e provata, che prende in braccio un bimbo senza panni addosso e con la bocca spalancata. Forse fame, forse pianto. Così è nata l’America.

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