Stato sprecone e parassitario, contro privato dinamico ed efficiente. Noi italiani siamo bravi nelle contrapposizioni nette, nel tifo da stadio. Ma fare il tifo è la prerogativa di chi sta sugli spalti. Non di chi deve affondare i tacchetti sul campo o, se si preferisce, di chi deve mettere le mani in pasta. E infatti, dopo il tragico crollo del ponte Morandi a Genova, la discussione tra “privatisti” e “statalisti” si è fatta meno scontata, complice anche il tempo passato dall’ubriacatura delle privatizzazioni degli anni Novanta. E il tempo, si sa, porta consiglio (sul tema consiglio il bel libro di Gianluigi Da Rold, Assalto alla diligenza. Il bottino delle privatizzazioni all’italiana, Guerini).

Un contributo decisivo sul tema lo offre un’economista italo-americana, Mariana Mazzucato, che da anni sostiene che in Italia, e non solo, bisognerebbe finalmente uscire dalla contrapposizione ideologica tra pubblico e privato e mettersi nell’ottica di una loro interazione. In una recente intervista a Repubblica, la studiosa ha affermato che “per troppo tempo si sono attribuiti solo al privato meriti economici che in realtà erano anche del pubblico. E anzi, senza l’iniziale investimento pubblico non si sarebbero potuti immaginare”. L’esempio più classico riguarda la nascita dell’economia digitale negli Stati Uniti, avvenuta grazie a “investimenti e scommesse anche abbastanza azzardate dell’economia pubblica”. L’intervento pubblico non deve limitarsi però al solo investimento perché “in economia chi non gestisce diventa stupido, finisce ai margini del sistema, non capisce neanche più il futuro delle opportunità”.

La storia del nostro sistema economico lo dimostra. Continua Mariana Mazzucato: “Nel dopoguerra la ricostruzione e il miracolo economico sono in larga parte merito dei grandi enti pubblici (Iri ed Eni) che avevano ai vertici manager di assoluto livello. Poi quegli stessi manager sono stati progressivamente sostituiti da dirigenti indicati dalla politica e, contemporaneamente, si è cominciato ad organizzare anche il sistema pubblico in base a criteri privati. Al termine del percorso si è stabilito che il pubblico è inefficiente. Una classica profezia che si autoavvera”.

Da dove ricominciare quindi? “C’è bisogno di alzare il livello dei tecnici e dei manager pubblici, ma anche di avere criteri molto diversi per misurare e valutare gli investimenti”, sostiene Mazzuccato. Sacrosanto. Non bisogna però pensare di essere al punto zero. In realtà, esempi di pubblico d’eccellenza esistono già. Bisognerebbe quindi innanzitutto andare a studiare questi casi, farli conoscere, diffonderne la pratica.

Un esempio è senz’altro quello del nuovo ospedale pubblico di Bergamo, intitolato a Papa Giovanni XXIII. Un grande ospedale (1.200 posti letto, 36 sale operatorie, 226 ambulatori), bello dentro e fuori (sembra un castello medioevale ricostruito secondo i canoni dell’architettura contemporanea, ricco di verde, con spazi luminosi e abbelliti in ogni modo), efficiente (dotato di robot trasportatori, risonanza magnetica intraoperatoria, e il più grande sistema italiano elimina-code) e che offre servizi di grande qualità (risultati sopra la media nazionale, al top per interventi in oncologia, al vertice per la ricerca). Non ultimo, è particolarmente curato il rapporto umano operatori-pazienti, secondo l’idea che “prendersi cura è un dovere” e che “ogni giorno, ogni paziente è nuovo”.

Forse è questo il contributo che questo ospedale può dare all’attuale dibattito sui servizi in Italia: tra un privato che a volte lucra mettendo a repentaglio la vita dell’utente e un pubblico che in certi casi è sinonimo di inefficienze e clientele, qualcosa di nuovo può nascere se semplicemente e ingenuamente si tenta di amare coloro per i quali si lavora.