Nel giro di dieci giorni tutte le scuole della penisola avranno riaperto i battenti per l’inizio delle lezioni. Il ritorno a scuola è sempre accompagnato da grandi afflati ideali e da piccole miserie concrete. I docenti si domandano come educare i ragazzi e nel contempo si preoccupano di avere il lunedì libero alla quinta ora, gli studenti chiedono più attenzione da parte degli adulti e senza battere ciglio si ricordano di avere ancora tonnellate di compiti da fare, i genitori spiegano agli educatori che cosa voglia dire crescere un figlio con responsabilità e con altrettanta disinvoltura si approntano a giustificare i ragazzi per ogni ritardo o negligenza: l’inizio — in quanto tale — porta quindi sempre con sé il caos. 

Il caos, si badi bene, non è da confondere con la confusione: quest’ultima è la premessa per l’emergere di soluzioni posticce o radicali, mentre il caos non è altro che la compresenza di elementi con eguali potenzialità dinanzi ai quali è difficile prevedere quali di essi alla fine prevarrà. Potrebbe essere un anno scolastico di forte responsabilità o di protesta, di conflitti o di improvvise armonie: nel caos ciò che conta è la libertà del singolo, è l’Io di ciascuno che fa la differenza. 

Quest’anno il nostro paese arriva al consueto caos di inizio anno in una situazione complessa: è fresco il dolore e il monito di Genova, come è caldo il tema dell’immigrazione, è forte il consenso per il governo formatosi all’inizio di giugno, ma già si prepara una lunga campagna elettorale in vista del voto europeo del prossimo 26 maggio. Le istituzioni tradizionali vivono una sorta di lungo autunno: l’Unione Europea capro espiatorio di ogni populismo, la Chiesa travolta da scandali e faide intestine che ne minano credibilità e buon nome. In tutto questo che cosa può dunque un Io? Come un Io fa la differenza dentro al caos? 

C’è una vecchia canzone di Sergio Endrigo che racconta di un uomo consapevole di aver avuto nella vita solo un dono, solo un regalo: la presenza della persona amata. Endrigo, con un tono intenso e drammatico, arriva a dichiarare che è sua intenzione fermarsi e regalare a questa presenza amata “quel che resta” della sua gioventù. Il punto è proprio questo: dopo un’estate intera, oppure anni, passati a cercare nuove avventure e a perdersi per le strade del mondo a chi, a che cosa, desideriamo regalare quel che resta della nostra febbre di vita, del nostro desiderio di essere felici? Su che cosa vogliamo scommettere sul serio? Su una presenza amorosa che ci ha travolti e che ci precede oppure su quello che abbiamo già capito e vissuto?

La forza di una posizione umana, sul campo da calcio come in parlamento, in ufficio come tra i fornelli, sta nella sua autocoscienza: tutto si decide in forza di ciò che sappiamo che ci ama, in forza di ciò a cui apparteniamo. La realtà, infatti, non si frega. Con la realtà non si bara: è evidente dalle nostre scelte e dalle nostre prese di posizione che cosa ci ha davvero afferrato e che cosa ci sta a cuore. Si potrebbe dire che le parole possono esprimere qualunque velleità, ma è l’affezione alla realtà — l’affetto appassionato alla Presenza che vive dentro il reale — che in ultima istanza racconta ciò per cui viviamo, ciò per cui stiamo dando la vita. 

Quando i battenti di tutte le scuole saranno aperti la partita si giocherà non sui compiti o sui libri, ma sul volto che ciascun docente, ciascun genitore e ciascun studente fisserà, avrà negli occhi. Dentro ad ogni caos, che crolli un ponte o che comincino le lezioni, l’inizio di tutto, la rivoluzione che ribalta tutto, è un Io che ricomincia a dire Tu, che ricomincia nella realtà quel dialogo libero e gratuito che può cambiare le sorti del mondo, che può far felice chiunque. Sia chi si sposa, sia chi — in un pomeriggio di fine estate — si congeda dalla vita.