La marcia dei 30mila a favore dell’alta velocità Lione-Torino attesta che non tutti si sono fumati il cervello. Infatti lo capirebbe anche un bambino, se gliela si fa vedere, che la ferrovietta della Val di Susa è una vecchia carabattola. E lo capisce chiunque consideri che tagliar fuori l’Italia dal grande disegno di connessione europea contribuisce alla gioia dei no-Tav e al declino dell’Italia. Questo al di là di tutte le osservazioni che si possono fare sulle valenze e i giochi politici che vi si intrecciano. Anche la “marcia dei quarantamila” del 1980 non era esente dai bastoni e dalle carote degli Agnelli e compagnia, ma fu giusto e sacrosanto per il destino del Paese troncare la perversa dinamica della scala mobile e della connessa inflazione quasi-sudamericana a due cifre.
La questione è assai grave perché se si sega anche la Tav, gli investimenti nelle infrastrutture (trasportistiche e anche telematiche) si avvicinerebbero a quota zero. Si aggiunga che quasi zero è la quota di investimenti in formazione, istruzione, ricerca e innovazione. Risultato: addio sviluppo. E il futuro? i nostri figli? Decrescita felice?
Dietro questa brutta storia vi è certamente la dittatura del consenso a brevissimo termine. Banchettiamo ora con quel poco che ci rimane, perché meglio un uovo, anzi le briciole adesso, che una gallina domani.
Ma c’è anche, io credo, una concezione culturale, e di conseguenza politica, fondata sulla paura: paura del futuro per i 5 Stelle, paura dello straniero per la Lega di Salvini, con conseguente ripiegamento sul nazionalismo. Problema non solo italiano, intendiamoci: basta vedere la traiettoria degli Usa dal Nuovo Ordine Mondiale di Bush ai Muri&Dazi di Trump. E tante altre situazioni. C’è poco da fare: la globalizzazione è scappata di mano alla politica, la paura penetra lo scenario mondiale come le vite personali, perché si ha paura del capo, del giudizio degli altri, dei ladri, dei tossici, di sposarsi, anche solo di andare a convivere…
Julián Carrón, in una recente intervista al Corriere della Sera (10 gennaio), ha precisamente posto la domanda: che cosa oggi può realmente vincere la paura? Domanda ineludibile, perché la paura è innegabile. Il solo modo per evitare questa domanda è: girare sui tacchi e retrocedere. Dare le spalle alla sfida. E’ l’attrattiva del passato. Ma, attenzione: a quella che una volta si chiamava reazione oggi si affianca una posizione diversa, quella che Zygmunt Baumann ha definito coniando il termine “retrotopia”, che rovescia il senso della parola utopia e indica appunto il guardare all’indietro, o almeno non andare avanti, per aggrapparci ad acquisite sicurezze di fronte a un futuro incerto e ostile, che svela e aggrava la nostra insicurezza esistenziale.
Si tratta a mio avviso degli sfridi delle fallite velleità rivoluzionarie post-sessantottine affidate all’utopia marxista. Il marxismo sfidava il progresso capitalistico sul terreno del futuro: alle “magnifiche sorti e progressive” opponeva il “sol dell’avvenire”. Su questo terreno ha vinto il capitalismo tecnocratico e consumistico. Producendo però sempre più gravi squilibri nella distribuzione della ricchezza e del potere su scala mondiale. Persa la sfida sul futuro, la velleità rivoluzionaria persiste attraverso una sorta di metamorfosi regressiva: nel mirino non c’è più il cuore del sistema, vale a dire il rapporto di produzione che determina le sovrastrutture sociali, ma suoi aspetti particolari, conseguenze, sviluppi ed eventuali progressi. Esaltazione dell’ecologismo estremo contro industrie ed infrastrutture e diritto al reddito senza lavorare sono due capisaldi delle idee dei teorici soprattutto francesi della decrescita, tra i quali non a caso troviamo post-sessantottini di sinistra e di destra, così come retrotopici neo-luddisti (luddisti erano quelli di sinistra) e reazionari di destra possono ben incontrarsi e convivere nel grillismo, cioè nel vaffa.
Dulcis in fundo, l’autogoverno telematico sarebbe l’espressione della rousseauiana volontà generale (per i neo-illuministi massoncelli), ovvero la nuova versione della democrazia dei soviet (per i nostalgici della dittatura del proletariato) ovvero l’alternativa all’istituzione parlamentare, mussolinianamente considerata l’aula sorda e grigia da destinare a bivacco di manipoli.
E’ difficile non vedere in questa parabola anti-sviluppo il riflesso della decadenza della modernità, o post-modernità, o quel che sia. Cioè un prodotto del nichilismo.
Sì, ma allora? Per provare a raccapezzarci, non ho trovato di meglio delle parole di mons. Luigi Giussani dette in un’intervista a “Il Grano” del luglio 1986 (riportata nel volume L’io il potere e le opere, pagg. 219 segg.). Dice: “A questa generazione non è stato proposto nulla eccetto l’apprensione utilitaristica dei padri… Manca un ideale minimamente adeguato di miglioramento sociale, salvo che su un piano strettamente utilitaristico… I cristiani – annota poi – affermano che quell’ideale non è un principio astratto, ma è ben presente in un popolo che fa storia”. E il popolo è definito così: “Un ideale di vita umana o più umana che trova l’interesse di gente che in qualche modo si riconosce amica e collabora in vista di un percepito o supposto ideale di migliore umanità e cerca anche di trovare gli strumenti per realizzare questo ideale. Questo è un popolo”. Questa è la prima, vera grande opera.
Dopo di che si possono ben fare (si devono fare) grandi infrastrutture con attenzione alla qualità, al beneficio e alle persone, cioè costruendo un futuro di maggiore umanità, così come si può ben vivere la politica come servizio. Se gli antichi monaci avessero subìto la paura del futuro, non avremmo neanche il formaggio grana, che esige lunga stagionatura e quindi senso del destino proprio e altrui. Per me, sesta prova dell’esistenza di Dio.