Il mistero di una pagella

I giovani non chiedono agli adulti di essere degli eroi. Domandano loro una coerenza ideale, un impegno reale con la vita per quello che è

Una vignetta pubblicata nei giorni scorsi da Makkox sul Foglio ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica la vicenda narrata da Cristina Cattaneo, medico legale che si occupò dell’identificazione di parte dei mille migranti morti nel naufragio avvenuto a largo della Libia il 18 novembre del 2015: un adolescente dal corpo irriconoscibile e privo di documenti portava cucita nel giubbino la sua pagella scritta in francese. Nessuno saprà mai con certezza il senso di quel documento così gelosamente custodito, eppure nei giorni in cui i nostri ragazzi hanno ricevuto o stanno per ricevere le loro pagelle, questa storia ci ricorda quanto pesino nella vita di un ragazzo tutti quei numeri che noi insegnanti mettiamo in fila per esprimere le nostre valutazioni: rappresentano la misura di un pezzo della loro esistenza, disegnano davanti ai loro occhi una realtà che non sappiamo, in fondo, quanto possano accettare o vogliano vedere.

Ingenuamente noi pensiamo di dare un voto all’impegno o allo studio, ma tanti di loro leggono in quelle righe un voto a se stessi. Non è facile oggi essere adulti. Si racconta sempre di quanto sia complessa l’adolescenza, ci si ostina a decifrarla con le lenti delle statistiche, della ricerca, della psicologia, ma poche volte ci si ferma a guardare dall’altra parte, verso quei genitori e quei docenti cui nessuno ha mai insegnato a essere grandi. Il fatto è che verso di loro tutti hanno delle aspettative: la società, che chiede che formino giovanotti e signorine educati e perbene, le chiese – religiose o laiche – che spingono a tramandare valori e scelte di vita, i ragazzi stessi, che vorrebbero trovare i propri vecchi sempre sul pezzo e ammantati di rettitudine.

La verità è che l’adulto è deludente, ma non perché questo tempo sia più cattivo di altri tempi, bensì perché è fatto per deludere. Se così non fosse, se un adulto funzionasse perfettamente, se tutti fossero grandi papà, grandi mamme o grandi maestri non arriverebbe mai quel momento, così prezioso, in cui tra noi e i ragazzi si insinua un vuoto, il momento in cui “noi siamo noi” e “loro sono loro”. Per questo c’è la morte: perché loro possano rimanere senza di noi, perché siano costretti a guardarsi allo specchio, a prendere in mano la propria vita e a cavarsela. Per questo nei rapporti – in tutti i rapporti – ci sono le piccole morti che si presentano col nome del tradimento, della disillusione, dell’incomprensione: perché accada il miracolo della libertà, il miracolo dell’Io che – proprio perché improvvisamente di fronte a se stesso – sia spinto a muoversi, a verificare se davvero la vita è tutta una fregatura oppure il bene c’è, esiste. Finché ci saranno adulti che le cose gliele dicono, o gliele fanno, non partirà mai la loro avventura.

Spesso guardo un po’ divertito alcuni genitori o colleghi che cercano di essere importanti e significativi per i ragazzi: danno l’anima, investono tempo ed energie e poi rimangono spiazzati da una reazione, da un’alzata di spalle, da un errore o da una fragilità dei figli o degli studenti. Pensavano di salvarli, di proteggerli, di metterli al sicuro, di cambiarli. E per farlo avevano smesso perfino di avere una propria vita. Senza rendersi conto che nessuna azione umana può produrre davvero una novità: si possono generare dipendenze psicologiche, fare fuochi d’artificio, suscitare euforie, ma la libertà dell’altro – l’intimo sacrario della sua coscienza – è intangibile, intoccabile. Loro ci deludono, noi li deludiamo. Ed è per questo che va tutto bene. Abramo, prima di morire, fece coprire tutti i pozzi che aveva scavato nel deserto affinché fosse Isacco a ritrovarli. Il servizio più grande che possiamo offrire ad un giovane è quello di mostrargli una strada vera da percorrere, di proporgli un’umanità vera da condividere.

Questa settimana sono stato premiato a Roma con l’Italian Teacher Award insieme ad altri cinque colleghi di tutta Italia. Il giorno dopo, arrivando a scuola, volevo essere all’altezza del premio che avevo ricevuto e – proprio per questo – ero immobile, non sapevo come comportarmi. Alla terza ora arriva uno studente di quinta che si accorge di quanto stava succedendomi e, con fare disinvolto, mi si accosta e mi dice: “Prof., stia tranquillo: lei non è speciale”. Mi ha liberato. E mi sono commosso.

In un tempo di perfezione, il miracolo è potersi permettere di essere imperfetti. Un’imperfezione guardata, amata, custodita: i ragazzi non ci chiedono di essere degli eroi, ma ci domandano una coerenza ideale, un impegno reale con la nostra vita per quello che è: ci chiedono di dire “ciao”, di saper chiedere scusa, di stare zitti, di guardarli in faccia, di dire “grazie, non lo so, mi dispiace”. Nei voti che noi professori diamo quello che rimane appiccicato è lo sguardo con cui li abbiamo dati, rimane impressa la nostra strada, la nostra vita, la nostra ricerca della felicità, il nostro modo di essere “Io”. Sembra poco, è vero, ma per quell’adolescente annegato nel Mediterraneo era tutto il bagaglio che gli occorreva per ricominciare a vivere. Perché nessuno si porta dietro le lezioni degli altri o gli ammonimenti ricevuti. Tutti si portano addosso le loro pagelle, il modo in cui un altro ha cercato di amarli, ha cercato di dire loro: “Tu vali”. E non c’è niente che possiamo fare per essere all’altezza della situazione: solo permettere al Cielo di continuare a guardarci attraverso gli occhi di chi incontriamo e di chi ci sfida. Senza nulla pretendere, imparando ad attendere tutto.

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