Cronoprogramma. Oggi come oggi se non fai un cronoprogramma sei out. Infatti c’è un preciso cronoprogramma anche per il percorso dell’italico regionalismo differenziato avviato con il Governo (Gentiloni). Chissà se sarà rispettato. Esso prevede: 15 gennaio conclusione del lavoro del tavoli tecnici (se ne è saputo qualcosa?), 15 febbraio definizione da parte del Governo (Conte) delle intese da presentare a Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna per essere sottoscritte.

Il regionalismo differenziato è una possibilità previsto dalla Costituzione riformata, bellezza; quella varata nel 2001 (Governo Amato). Arriviamo adesso alla fase attuativa piuttosto avanzata di un riassetto della governance del Paese, che però curiosamente viaggia sottotraccia assai, oscurata da Quote-cento e Redditi di cittadinanza, e schisciata tra malcerte sponde, quella dei proponenti epigoni della seconda Repubblica bipolarista (piddini emiliano-romagnoli e leghisti federalisti lombardo-veneti) e quella dei decisori centrali della terza Repubblica nazionalista (pentastellati centralisti e leghisti sovranisti).

Dunque regoliamo gli orologi sul 15 febbraio e stiamo a vedere.

Nel frattempo ricapitoliamo: la Costituzione del 2001 stabilisce nel Titolo V che la potestà legislativa di certe materie (ad esempio la moneta, la difesa, la politica estera) è esclusiva dello Stato, mentre di altre 23 (ventitré) è concorrente tra Stato e Regioni. Un taja e medéga (taglia e medica, definizione lumbarda dell’umana e politica ambiguità), fatto di concessioni a denti stretti e col braccino corto alle istanze autonomiste delle Regioni nordiste del centrodestra, messo nero su bianco nell’articolo 117 della Carta, che ha prodotto più di 6mila ricorsi per conflitto di attribuzione, cioè un bel casino paralizzante. Sempre il Titolo V, art. 116, prevede che le Regioni possano chiedere e trattare con lo Stato centrale “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Quanto alle relative risorse, vige il silenzio costituzionale, cioè sarà un bel match. Tutto l’iter poi si dovrà concludere con una legge votata dal Parlamento a maggioranza assoluta.

Oggi siamo dunque di fronte al paradosso di una spinta autonomista che viene da lontano e dal basso (ma chissà che ne è della sua autentica spinta propulsiva), e di un governo sostanzialmente centralista anche se bifronte, o gialloverde, come si usa dire.

La spinta autonomista aveva le sue ragioni. Esse erano sostanzialmente due, tra loro strettamente connesse. La prima di natura per così dire competitiva, cioè il principio di efficienza: noi Regioni virtuose siamo più brave dello Stato nel rapporto costi/qualità servizi. La seconda di natura più ideale, cioè il principio di sussidiarietà verticale: noi Regioni virtuose siamo un livello decisionale con maggiore vicinanza al cittadino. Il tutto in una duplice prospettiva: quella leghista un po’ secessionista, per cui il federalismo significava antagonismo allo Stato, e quella per intenderci catto-formigoniana per cui il federalismo sarebbe stato un contesto più favorevole alla sussidiarietà orizzontale, cioè al protagonismo dei corpi intermedi, delle organizzazioni sociali dal basso di cui la Lombardia ambrosiana e… ma sì, sturziana, è (tuttora) straordinariamente ricca.

La domanda è: valgono ancora queste ragioni, ora che il percorso si è fatto se possibile ancor più difficile? Non che prima non lo fosse: l’avvio dell’intesa autonomista con lo Stato che Formigoni propose nel 2007 fu stoppato con mossa centralistica dal tandem B&B, Bossi che non voleva lasciare al governatore il vessillo del federalismo e Berlusconi che non poteva dire di no al Senatùr. Ma adesso il percorso sembra quello del cammello attraverso la cruna dell’ago, dopo i vigorosi tagli lineari di risorse che hanno penalizzato le Regioni virtuose e afflosciato il regionalismo in generale; con una lunga crisi economica che sta diventando recessiva; con un processo avanzato di compressione delle realtà di intermediazione sociale; con un rapporto cittadino-politica che il protagonismo personalistico dei leader e l’uso dei social fanno apparire più diretto, mentre spappola le socialità organizzate affermando di fatto il rapporto individuo isolato-Stato padrone deus ex machina.

Eppure, forse, non è da spegnere il lucignolo fumigante dell’autonomismo (tra parentesi: molto più per l’autonomismo e la sussidiarietà andrebbe commemorato l’anniversario di Sturzo e del Partito popolare che non per la nostalgia improbabile di un nuovo partito dei cattolici-chissà-quali). Nel sogno di un nuovo catto-centrismo c’è un disegno di potere (sponsorizzato da bipolaristi d’antan che furono sussiegosamente dalla parte di chi fece fuori la Democrazia cristiana). Nel percorso autonomista c’è un possibile, dico possibile, angusto e difficile spazio per un protagonismo costruttivo dal basso, per chi è mosso da un motivo ideale e si sente quindi parte attiva di un popolo.

A due condizioni: la prima, appunto, che non sia assente una posizione ideale, perché senza di essa popolo non c’è e quanto al politico di turno al potere, è inevitabile che ceda alla tentazione di ridurre il popolo a gregge, preferibilmente e tafazzianamente osannante proprio a lui, a chi lo frega: “O popolo d’Italia – cantava Carducci – vecchio titano ignavo, vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: bravo!”. O like su Facebook.

La seconda condizione, nei governanti ad ogni livello, e soprattutto quando si tratta di materia costituzionale, è la capacità di convergere non sui taja e medéga, ma su un quadro complessivo coerente e organico, il che è possibile se, come fu per i padri costituenti, il bene comune a lunga scadenza è fatto prevalere sugli interessi particolari con data di scadenza ravvicinata.