Il 4 marzo del 1933, nel suo discorso inaugurale, il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, scandì un aforisma che poi divenne famoso: “L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”. Erano gli anni della grande depressione seguita alle disinvolture, anche in quel caso prevalentemente finanziarie, del 1929. Nel suo discorso, Roosevelt non voleva solamente rincuorare un popolo frastornato, ma voleva affrontare la paura con interventi concreti senza cadere in promesse vane e in un’arroganza autoreferenziale.

Anche il “New Deal” andò per tentativi e subì le sue frenate, ma venne perseguito, con coraggio, senza comunicare paura e arroganza. Quello di Roosevelt fu un insegnamento e un metodo di lavoro che ripagò di benessere.

Questa premessa ci serve per guardare quello che stiamo osservando oggi nella politica italiana e in quella europea. La passione politica, il beruf (la vocazione, descritta da Max Weber), si muove in modo drammatico per trovare scelte valide basate sull’osservazione della realtà e sul senso di responsabilità. Chi si ricorda di questo insegnamento basilare nella cosiddetta classe politica italiana?

Si coltiva una paura del diverso, dell’immigrato o dell’inevitabile problema dell’immigrazione, che è un fenomeno mondiale e lo sarà per molti anni (come lo è stato per secoli), e ci si divide non su scelte credibili e responsabili, ma tra rifiuto e accettazione, con un’arroganza che lascia esterrefatti.

C’è un ministro che, il giorno dopo una sciagura in mare con 117 persone annegate augura un “buon giorno” a tutti attraverso i suoi strumenti di comunicazione. In una situazione economica problematica e in un’Italia decisamente contrassegnata da un’ennesima frenata, c’è un altro ministro di questo governo giallo-verde che prima lancia l’aspettativa di un boom economico, quindi si ricrede, poi vara dei provvedimenti che è sicuro siano salvifici, anche lui con un’arroganza che è difficile trovare in qualche momento storico.

C’è chi sostiene che questo tipo di atteggiamento derivi da una mossa propagandistica in vista delle elezioni europee. E allora ci risiamo: la paura di non sfondare nelle urne genera l’arroganza di “sparare alto” in ogni discorso.

Una carissima amica e brava giornalista dice: sembra che tutti parlino per farsi notare, per dimostrare che esistono; non per comprendere almeno i problemi e discutere dialetticamente le loro diverse opinioni, ma solo per giustificare una presenza in una totale confusione.

Questa frase detta spontaneamente ci riporta ai pericoli per la democrazia che avevano già visto uomini di Stato come Winston Churchill e studiosi come Joseph Schumpeter. E’ noto quello che diceva Churchill: la democrazia rappresentativa ha mille difetti, purtroppo non c’è nulla di meglio. Ma non si aggiunge mai la seconda parte dell’aforisma dello statista inglese: il pericolo maggiore è quello di conversare di politica con un elettore medio.

Schumpeter, nel suo classico Capitalismo, socialismo e democrazia, parlava della democrazia rappresentativa come di un paradosso che funziona, ma che deve essere tutelato attentamente, perché quando si parla con un elettore qualsiasi di sue cose personali, lui sarà scrupoloso e attento, ma quando si parla di politica si passa a scenari immaginari e immaginifici, che quasi stupiscono per la fantasia, con un abbandono del senso di realtà e la conseguente caduta del senso di responsabilità.

Si vive, quindi, tra paura e arroganza a tutti i livelli nella società post-ideologica. Chi ha tentato di esorcizzare questo passaggio storico con la “fine della storia” (una pseudo-ideologia) ha sbagliato tutto, perché ha solo favorito il perenne interesse di élite che difendono, da sempre, i loro privilegi contro organizzazioni di base, corpi sociali, interpreti di interessi collettivi che hanno sempre lottato, finché hanno potuto, per salvare una società sufficientemente equa, democratica, aperta. Oggi siamo di fronte a una società dove 26 super-ricchi detengono risorse pari al 50% più povero dell’umanità.

Qui, con le attuali regole sovranazionali, non siamo neppure governati da un’oligarchia, ma da una combriccola di irresponsabili dementi e avidi, anche loro paurosi e arroganti allo stesso tempo, che si contrappone ai focolai di risposta di alcuni Paesi come appunto l’Italia. Forse non c’è il pericolo di un ritorno del fascismo, ma quello di un progressivo svuotamento della democrazia verso un neo-autoritarismo che ancora non conosciamo.

Insomma, l’epoca in cui viviamo, dopo il 1989 nel mondo e dopo il 1992 in Italia, è diventata la “paurosa battaglia dell’arroganza” tra due schieramenti che non sanno neppure che cosa sia la politica e la dialettica democratica.

Pensate a quello che ha detto Jean-Claude Juncker, esperto “fiscalista” lussemburghese, ma anche presidente della Commissione europea, criticando la politica dell’austerity e la mancata solidarietà ai greci. Pensate a Macron barricato nel gabinetto dell’Eliseo circondato dai gilet jaunes. Pensate alla stessa signora Merkel, che perde dieci punti a botta elettorale da due anni a questa parte e ha pure un’economia che comincia a battere in testa. All’arroganza dei “giallo-verdi” italiani, si contrappone la similare arroganza dei predicatori dell’austerità, che da oltre dieci anni non riesce a risolvere una crisi provocata da una finanziarizzazione senza senso, da un debito privato che ha surclassato i debiti sovrani.

Perché i signori di Goldman Sachs, così fieri del mercato e insofferenti verso ogni intervento pubblico, non restituiscono i 125 miliardi di dollari presi dallo Stato che ha salvato la loro banca nel 2008? Hanno ripreso i dipendenti licenziati (3mila persone) tra il settembre del 2007 e il novembre del 2009?

Guardate al Fondo monetario internazionale, presieduto dalla fascinosa Christine Lagarde, che ha fatto autocritiche sull’austerità, dopo averla sostenuta, e da dieci anni non azzecca una previsione.