Anche l’autoradio ha la sua utilità. In una recente trasmissione si parlava di barboni e reddito di cittadinanza, del rischio che i senza tetto non lo ottengano dato che non hanno un indirizzo di residenza. Più di un ascoltatore, intervenendo al telefono, ha fatto notare che dare soldi liquidi direttamente a una persona con problemi di alcol, o di disturbi psichici, o di incapacità di gestire un pur minimo budget, senza qualcuno che lo accompagni, sarebbe vano se non deleterio. Si trattava di volontari o professionisti impegnati con quelle persone povere. Se non c’è qualcuno che il barbone lo chiama “mè amis”, mio amico, come Jannacci nella nota canzone, finisci per servire categorie astratte, cioè la tua idea, e rischi di buttare via anche i soldi.  Dire invece el mè amis afferma il valore del singolo.

L’autoradio, insomma, mi ha spinto a considerare il nesso tra politica e persona, politica e carità. Persona, carità: quante volte diciamo “ok, ma il problema è un altro”?

Ero incappato io stesso in questa inintelligente obiezione un paio d’anni fa leggendo di una ragazza catalana che testimoniando la coscienza di essere persona, quindi non riducibile al suo essere “autonomista”, aveva cambiato il clima di un’assemblea di giovani studenti a Madrid e aperto un percorso collaborativo per il bene comune.

Così ho badato a non ripetere lo stesso errore leggendo sulla rivista Tracce tre testimonianze di persone – inermi, ma persone! – in situazioni tra le più disperanti dell’America latina.

Dal Venezuela fatto a pezzi: “Immagino l’incertezza dei discepoli dopo la morte di Gesù. Come San Benedetto occorre pregare e iniziare a lavorare come e dove è possibile”. 

Da Haiti abisso di miseria. Un italiano ci è stato per adottare la bambina. Nel viaggio di ritorno le promette felicità perché ora avrebbe avuto luce elettrica, acqua corrente anche calda, buon cibo, e Gesù. Ma ma allora gli haitiani non possono essere felici? Gesù basta o no per vivere? Cioè io in cosa consisto?

Dal Messico, dove metà popolo investe la speranza nell’ultimo vincitore e metà nel vecchio potere. Un volantino di Cl avverte che “tutti vogliamo una trasformazione, ma non basta aspettarsela dall’alto, imposta dal Governo; siamo tutti chiamati ad essere protagonisti” e “il cristianesimo è rivoluzionario perché essenzialmente non aspira ad occupare posizioni di potere per cambiare l’uomo e il mondo dall’alto, ma punta sulla persona concreta”.

Non rinunciare alla speranza e puntare sulla persona concreta: è un’urgenza anche dalle nostre parti. E lo sarà sempre di più. Non c’è bisogno di essere il mago Otelma per prevedere che l’inevitabile fallimento, prima o poi, del governo rivoluzionario gialloverde lascerà orfana l’ultima speranza degli elettori e l’ultimo brandello di nesso tra la gente e la politica; e che un’Europa sempre più sfatta e litigiosa galleggerà come vaso di coccio fra le corazzate Usa, Russia, Cina padrone del mondo. Ecco: “In un tempo di rassegnata decadenza, serpeggia la paura nascosta dall’indifferenza… in un tempo esasperato e incongruente…”. Così Gaber (Io come persona, 1994). E attenzione come finiva la lunga chanson de doléance: “Ma io come persona ci sono. Io come persona ci sono ancora”, gridato ripetutamente con la caparbietà di un Piave dopo la Caporetto di tutto il resto.

La persona cioè ha valore in quanto c’è. In quanto ultimamente appartiene al Mistero e non al Potere. Ma essa non si erge come soggetto se non perché mossa da un ideale più grande; e l’affermazione del suo valore “in quanto c’è” trova un esercizio educativo imprescindibile nella carità cristiana. Su questo non saprei dire meglio del prof. Davide Prosperi (“L’inizio di un mondo nuovo”, Tracce n. 1/2019, pag 38), a cui rimando.

Ed è vero che la frattura a questo livello – di proposta ideale e di educazione al valore della persona – spiega la crisi della politica più in radice delle tesi sul venir meno della classe dirigente e dei corpi intermedi.

Gaber e Prosperi dicono cose decisive per la stessa democrazia, che insieme all’educazione e alla crescita, è emergenza grave del Paese. Disaffezione alla politica, continuo aumento dell’astensionismo, crisi della democrazia rappresentativa, suggestioni di democrazia della rete: tutto ciò urge a ritrovare il senso vero della democrazia, che non è innanzitutto nella sua tecnicalità, ma nel suo scopo, vale a dire favorire modalità di rapporti sociali che non riducano la persona e rimuovano gli ostacoli al dispiegarsi delle sue potenzialità.

Analoga “conversione” è necessaria a mio avviso per i corpi intermedi:  associazioni, onlus, sindacati, ecc. Essi, laddove trascurano l’educazione continua allo scopo ideale, dato per scontato in premessa, per affidarsi al mestiere, alla tecnica e al ruolo, diventano brutti quasi-partiti e brutte para-burocrazie: un pezzetto dell’establishment.

Laddove invece non la trascurano, hanno un ruolo di grande importanza. Da questo punto di vista un dialogo tra esperienze di carità cristiana e iniziative di solidarietà di altra ispirazione non può che giovare alla democrazia italiana.