Non profit, il bene del popolo

La questione del raddoppio dell'Ires, anche se non avrebbe riguardato prevalentemente il non profit che fa impresa, ha messo in luce un problema culturale di fondo

Le recenti vicende relative alla proposta di raddoppio dell’Ires per il non profit e la successiva marcia indietro del Governo hanno avuto il pregio di riportare nel dibattito pubblico il tema dell’economia civile. Un tema che non riguarda affatto, come potrebbe sembrare a prima vista, quella parte residuale di società, generosa e volonterosa, che non è né Stato né mercato. Il tema dell’economia civile ha a che fare invece con un cambio di paradigma che potrebbe rappresentare la risposta alla crisi del capitalismo da cui non si riesce a uscire.

La questione del raddoppio dell’Ires, anche se non avrebbe riguardato prevalentemente il non profit che fa impresa, ha messo in luce un problema culturale di fondo: quello per cui si fa ancora fatica a considerare soggetto economico a tutti gli effetti un’impresa dotata di patrimonio e reddito, che ha scopi di utilità sociale, quali l’educazione, l’assistenza, la sanità, e per questo reinveste gli utili nell’attività. Un soggetto di questo tipo viene associato tout-court a un’impresa profit. Ma perché continuare a considerare “impresa” solo quella che divide i profitti, per poi magari bloccarli nella finanza rinunciando a sviluppare economia reale e lavoro? Perché non viene considerato che un’attività sociale ha anche un valore economico sistemico?

L’interesse pubblico non è solo quello assicurato dallo Stato. È quello relativo a un bene collettivo, a prescindere da chi lo promuove. Ogni tipo di ente dovrebbe essere valutato per la sua efficacia ed efficienza e questo non indebolisce il potere di controllo dello Stato, anzi lo rinforza, oltre ad alleggerire il suo potere di gestione. In altre parole, una società avanzata ha bisogno che ogni soggetto, statale, privato e privato non profit, svolga la sua funzione. In particolare, il non profit e l’impresa sociale dovrebbero essere valorizzati perché nascono dallo spirito di iniziativa e responsabilità dei cittadini. Ma c’è di più. La crisi economica e i tagli ai servizi di welfare statale, cui si assiste in questi anni, stanno penalizzando soprattutto le fasce più povere. È per questo che il privato sociale è una risorsa, perché agisce nelle aree in cui il privato puro non ha alcun interesse a intervenire e lo Stato non ha le risorse per farlo.

Pensiamo alle mense e alle strutture di aiuto ai poveri, alle scuole di formazione professionale, alle associazioni per la tutela dell’ambiente, ai Caf e ai centri di aiuto per i lavoratori precari, alle cooperative per il lavoro dei diversamente abili, alle iniziative che operano nel campo della dispersione scolastica e a chi si occupa del trasporto dei malati.

È stata la forza di questo dato di realtà a spingere i rappresentanti della società civile a portare avanti la riforma del Terzo Settore approvata nel 2016. Grazie a questa riforma il non profit che fa impresa è stato sdoganato. Il nostro ordinamento ha riconosciuto finalmente che esiste un mondo di realtà private che operano ben oltre il loro tornaconto e lo fanno per il bene di tutti.

Mancano ancora alcuni importanti decreti attuativi e la difficile dialettica tra imprese sociali e tante forze politiche, pur insieme a esempi virtuosi di collaborazione, è lì a testimoniare un clima persistente di diffidenza e di sospetto verso il privato che vuole agire per il bene comune, che in questi ultimi tempi sta ulteriormente avanzando.

Il fatto paradossale è che tutte le società moderne democratiche hanno guardato con crescente interesse l’iniziativa della società civile, vista come la vera risorsa e il principale obiettivo di una democrazia matura. E proprio in Italia si fa ancora tanta fatica. Proprio nel Paese che ne è la patria indiscussa, come documenta la secolare tradizione di welfare society che precede addirittura il formarsi dello Stato. Fino all’involuzione centralistica ottocentesca che ha esautorato la funzione sociale, se non addirittura statalizzato, tante delle iniziative che erano nate “dal basso”.

Ci volle ancora l’iniziativa della società civile (a dimostrazione che non sono le élite che “gentilmente concedono”, ma sono i cittadini a realizzare le loro conquiste) perché, con una campagna di sensibilizzazione e una raccolta di due milioni di firme che portò all’introduzione del principio di sussidiarietà nella Costituzione, si tornasse a far sentire la presenza di tante realtà nate dalla vivacità del nostro tessuto sociale e disposte a operare per il bene di tutti.

Per recuperare una coscienza civile e di popolo, si può anche scendere per le strade a protestare, ma soprattutto non bisogna smettere di guardare e sostenere i tanti esempi di risposta ai bisogni che i cittadini, organizzandosi, sanno realizzare.

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