L’elezione di Maurizio Landini a segretario generale della Cgil ha scosso i sismografi anche lontano dalla sinistra tradizionale e dal perimetro delle parti sociali. Anche chi resta critico verso le visioni della Cgil e lo stile del neo-segretario, viene spinto a registrare alcuni spunti di portata più ampia.
Il primo è certamente un segnale di rinnovata vitalità da parte di un corpo intermedio di primo livello: fondativo – assieme a Cisl e Uil – di una Repubblica che nella sua Costituzione ha indicato il sindacato come paradigma di partecipante attivo alla società civile del Paese; primo motore, assieme alle imprese, della sussidiarietà economica.
Dopo lunghi decenni vissuti come “cinghia di trasmissione” del Pci e dopo gli anni più vicini dei tentativi di “rottamazione” da parte dello stesso Pd, la Cgil si ripresenta sulla scena del Paese sotto la guida di un leader nuovo: diverso sia da Giuseppe Di Vittorio che da Luciano Lama, che da tutti i suoi successori fino a Susanna Camusso. Non era scontato: né che un sindacato come la Cgil avesse la forza di riproporsi come protagonista, né che scegliesse un segretario con il profilo di Landini.
Non era scontato – ed è un secondo momento di riflessione – che nella Cgil emergesse un capo come Landini in una fase di paralisi politica della sinistra storica. La doppia pressione di Lega e M5s – vincente lo scorso 4 marzo – non è riuscita finora a scuotere il Pd, mentre sembra aver prodotto un primo riflesso nella Cgil. Non a caso ciò è avvenuto dopo che la travagliata manovra 2019 – imperniata su reddito di cittadinanza e pensioni a quota 100 – ha agitato proprio le acque nelle quali si muove un grande sindacato come la Cgil. Che sente evidentemente la necessità di rientrare al più presto in gioco sul proprio terreno, quello della democrazia sindacale. Con quale strategia?
Landini è stato rudemente conciso nell’individuare il “mercato” che la Cgil vuole conquistare (o riconquistare): gli italiani che non hanno un lavoro, un lavoro degno e tutelato, un lavoro non umiliato dalle diseguaglianze, dopo anni di globalizzazione iper-liberista seguita dalla spirale austerity-recessione. E’ solo un titolo, neppure ancora l’intera copertina: di una storia che comunque non potrà consistere solo di narrazioni mediatiche.
E la Cgil di Landini ha un lungo passato con cui misurarsi: dalla scala mobile inflazionistica degli anni 70 fino al referendum anti-Jobs Act, passando per le resistenze alla riforma della contrattazione, cioè al passaggio a un’effettiva fase nuova della democrazia sindacale. Fra Ilva, Tav e gasdotti, fra spinte alla spending review nella Pa e a una politica industriale “offertista” l’agenda corrente appare in ogni caso strapiena.
Ha colpito, tuttavia, che il nuovo segretario della Cgil abbia posto come priorità la vera emergenza-Paese: la povertà da disoccupazione (o da precariato) come sintomo più grave di una diseguaglianza ormai per molti versi strutturale. E lo ha fatto, Landini, senza essere iscritto alla piattaforma Rousseau di M5s: rivendicando la possibilità – prima ancora che la volontà – di promuovere uno sviluppo equilibrato senza cedere alle demagogie populiste.