Avevo 16 anni quando mi innamorai. Lei ne aveva 14. Era appena entrata nell’orchestra di cui facevo parte con suo fratello, che suonava il trombone accanto a me. Lei suonava violino e flauto. Per più di due anni e mezzo cercai di uscire con lei senza successo. Poi, quando lei stava per compiere 17 anni ed io 19, uscimmo insieme e alla fine della sera la baciai. Da lungo avevo sognato quel momento, molti sacrifici avevo compiuto perché avvenisse. Non rimasi deluso. Era un momento coinvolgente e stravolgente.

Fra me e me avevo pensato molto a questo istante, alla possibilità di tenere l’amata nelle mie braccia per baciarla e, se Dio voleva, che lei a sua volta mi baciasse. E così fu.

Ma nonostante la bellezza e potenza che quell’avvenimento suscitava dentro di me, anche se in quel momento non lo ammettevo nemmeno davanti a me stesso, c’era qualcosa che non tornava. Per la visione della vita che avevo da ragazzo molto ingenuo, mi sembrava che il vertice dell’esistenza, l’istante che doveva rispondere a tutte le mie domande e tutti i miei dubbi sulla mia vita, fosse quello di trovarmi innamorato e amato. Senza averci riflettuto in modo molto articolato, avevo la sensazione che un’esperienza così dovesse abbracciare tutte le dimensioni della mia persona, spalancandole al compimento, senza lasciar fuori nulla. Tutto di me e del cosmo doveva essere riconciliato dentro quell’abbraccio. 

Così non fu. Sotto i fuochi artificiali mi rendevo conto di profonde dimensioni, domande struggenti, grandi paure, ferite e confusioni spaventose che quell’avvenimento non riconciliava, e che non toccava nemmeno, neanche da lontano. Anzi: ciò che era più intimo in me, rimase solo. Rimasi solo nell’abbraccio della ragazza che amavo.   

Scoprii che l’amore umano, come ogni esperienza puramente umana, può essere solo un’analogia, una immagine molto imprecisa di un’altra cosa che non arriva fino a noi senza un miracolo, un intervento, un’irruzione dentro la realtà di qualcosa che non è prodotto dalla realtà creata che teniamo fra le mani. 

Sentivo montare in me una disperazione. Cosa ci può essere nel mondo di così  vero, di così profondo da non lasciare nulla d’incompiuto, di non abbracciato, nessuna paura, ferita, umiliazione, angoscia, senza riconciliazione? Cosa ci può essere, dentro la sfera della mia esperienza, capace di riconciliarmi con la vita, la morte, il peccato, la perdita, il tradimento e tutto ciò che sembra limitare la mia esistenza ingiustamente? Cosa potrebbe liberarmi dalla ribellione talvolta rabbiosa che c’è nel mio animo?

La festa dell’Epifania è questo passo, inimmaginabile, dentro la nostra storia. Poter toccare ed essere toccati, vedere ed essere visti, abbracciare ed essere abbracciati dall’Unico capace di riconciliarci con la nostra esistenza mortale, noi che siamo fatti a immagine e somiglianza di qualcosa non limitato dai confini del mondo creato. 

“Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi”, dice la prima lettera di Giovanni.

La promessa che fu quell’abbraccio che ho vissuto così tanti anni fa, che non mi riconciliò con la mia esistenza ma mi lasciò deluso e furibondo più che mai, finisce per essere qualcosa di vero, eternamente vero. Quell’abbraccio era immagine di un’altro abbraccio, vero, che ci riconcilia col mondo intero, con l’eternità, con Dio stesso. 

E in questa festa – l’Epifania – non mettiamoci tanto a immaginare, fantasticare, speculare, nemmeno a pensare. Poiché Egli è veramente apparso e appare in mezzo a noi, facciamo una cosa infinitamente più semplice e più potente: mettiamoci con gioia a testimoniare e ad annunciare che Egli è qui, con noi, e riconcilia ogni cosa in cielo e in terra.