Quando la comunicazione detta la sostanza della politica c’è poco da stare allegri. Se ne vede un esempio emblematico con il taglio dei parlamentari approvato questa settimana. O meglio, quella che è andata in scena è una certa comunicazione anti-casta che, partita da lontano, è riuscita a diffondere l’idea che in una situazione di crisi, istituzionale, economica, sociale, non ci sia bisogno di una politica migliore, più efficiente, ma di meno politica, di meno rappresentanza degli interessi delle persone, di meno intermediazione tra aggregazioni di cittadini e decisori pubblici, di meno lavoro di approfondimento, confronto e proposta di compromesso costruito nei lavori parlamentari.

D’altronde era successo già con giacobini e fascisti e non c’è nulla di nuovo nell’illusione che, per cambiare le cose, basti un colpo di spugna, o di forbici, e non invece un lavoro umile e profondo, lontano dai riflettori, per far comprendere la portata dei problemi e la necessità di operare il massimo sforzo per far ripartire il Paese.

Il taglio dei parlamentari è passato con una maggioranza “bulgara” e il provvedimento è stato “venduto” come il simbolo della lotta ai privilegi. Visto il clima da caccia alle streghe, costruito ad arte, non è un caso se ben l’85 per cento degli intervistati in un sondaggio ha approvato la delibera del Parlamento.

Per quanto riguarda la spesa pubblica, pur trattandosi di risparmio, il taglio si riduce a una somma esigua rispetto al bilancio dello Stato. Tutt’al più si può parlare di un valore simbolico. Sulla funzione dei parlamentari anche 50 sarebbero superflui se, come diceva Silvio Berlusconi, servono solo ad alzare una mano o a schiacciare un pulsante, oppure, come dice oggi Davide Casaleggio, è superata dal sondaggio online. Un politico di lungo corso come Pierluigi Bersani plaude ironicamente al provvedimento dicendo di sentirsi inutile.

Il fatto è che purtroppo si è persa la percezione del significato del potere legislativo dello Stato. Nella tanto vituperata Prima Repubblica la maggioranza dei provvedimenti legislativi non nascevano per imposizione governativa. Prima, nelle commissioni parlamentari e poi nell’aula, si trovavano dei compromessi tra maggioranza e opposizione che permettevano di far progredire il Paese, pur tra difficoltà e contrapposizioni. I parlamentari stavano a lungo a discutere in commissione, oppure effettuavano audizioni, per arrivare a testi condivisi e in grado di tenere conto della complessità dei problemi.

La politica economica non era limitata al DPEF o alla finanziaria, ma entrava nel merito delle diverse esigenze di territori e settori produttivi. Era vera e propria politica industriale che adesso è completamente tramontata. Il parlamentare non solo doveva limare e discutere fin nei particolari i provvedimenti, ma doveva girare il suo territorio, incontrare i rappresentati dei settori di cui si interessava, farsi portatore dei legittimi interessi di categorie intere per capire come muoversi.

Ciò che valeva per l’economia, valeva per il welfare, la sanità, il lavoro, l’istruzione, la tutela dell’ambiente e del patrimonio artistico, la politica per la famiglia, la giustizia. La formazione dei parlamentari era pratica consolidata. Così come l’attenzione e il rispetto reciproci, pur in aspri contrasti.

Questo è un metodo che servirebbe anche oggi per evitare provvedimenti banali e generici, spesso formulati in modo mediocre e confuso sul piano formale perché nati dalla scrittura di qualche burocrate, prima di avere acquisito i necessari approfondimenti, con un serio confronto, uno studio completo, con informazioni e conoscenze adeguate.

Nelle ultime legislature, invece, i provvedimenti di origine parlamentare sono ridotti al minimo, anche in presenza di problemi gravi e urgenti. Non solo. In questo clima di scontro continuo l’alternanza di governi con maggioranze differenti ha portato al varo di leggi di origine governativa che smentiscono addirittura quelle precedenti: la Fornero e quota 100; il Jobs Act e il Decreto dignità; la buona scuola e le demolizioni di stampo sindacale dello stesso fatte da altri ministri; una politica estera più “ballerina” che mai.

L’impressione è che tutto questo rientri nel quadro di un ulteriore indebolimento di una funzione irrinunciabile, quella politica, iniziato con l’eliminazione della scelta dei candidati da eleggere e culminato con una campagna generalizzata di discredito. La riduzione dei parlamentari può anche essere utile a patto che non si dimentichi la loro funzione fondamentale in una democrazia rappresentativa.