L’impreparazione e il cinismo dell’amministrazione Trump hanno plasticamente mostrato, per l’ennesima volta, il loro volto, come già successo nei rapporti con Corea del Nord, Arabia Saudita e Venezuela. Queste due facce non sono altro che la coda delle disastrose politiche estere che accompagnano le diverse amministrazioni americane da oltre 30 anni, accomunando in questa “cattiva gestione” Bush jr e Obama, impegnati in scenari caldi, strategici e delicati come Iraq, Libia, Afghanistan o le Primavere arabe. Il fil rouge che lega questi 30 anni di insipienza è l’amara constatazione che l’America non vuole nemmeno più far finta di giocare il suo, spesso controverso, ruolo di paladina della libertà.
E fin qui si rileva un dato evidente che comunque ci riguarda solo indirettamente. Oltre al crollo della credibilità internazionale degli Stati Uniti, però, il problema più grave, emerso in tutta la sua drammatica evidenza in questi giorni con la vicenda del popolo curdo lasciato solo dopo la decisione di Erdogan di invadere militarmente il nord-est della Siria, è la totale irrilevanza diplomatica di un’Europa afona, divisa e debole.
Non sono certo mancate, quando necessarie e giustamente, le critiche, anche a voce spiegata, contro i sovranisti di ogni latitudine, dai leghisti italiani al premier ungherese Orbán ai conservatori dell’ultradestra dei fratelli Kaczinsky in Polonia. Così come non si è esitato a deprecare gli attacchi all’euro o le tendenze centrifughe dei tanti nazionalismi diffusi o radicati in diversi paesi.
Al contrario, proprio la politica estera si sta rivelando il tallone d’Achille dell’Ue, il tarlo che, molto più in profondità che le questioni monetarie o economiche, ha piano piano svuotato totalmente l’Europa. La scandalosa indifferenza, fino al menefreghismo opportunista, con cui non si è avuto il coraggio di condannare la vergognosa invasione turca contro i curdi, nella totale incapacità politica di proporre sanzioni o la sospensione della vendita delle armi al regime di Erdogan, anche in questo caso rappresentano l’ultimo e più soffocante anello di una lunghissima catena di silenzi e di scarsa incidenza sulla scena internazionale.
L’indegno accordo di Blair e Aznar con il presidente Bush per sancire l’intervento armato in Iraq all’inizio degli anni Duemila e l’intesa sotto traccia, poi foriera di nefaste conseguenze per tutto lo scacchiere del Mediterraneo, tra Sarkozy e la Clinton nel 2011 per l’invasione della Libia sono accomunati da due modalità preoccupanti: da un lato, il basarsi, quasi ciecamente, su informazioni false e manipolate; dall’altro, l’intento di spiazzare gli alleati europei, costretti a trovarsi di fronte a fatti compiuti, a decisioni già assunte, a scelte operative a scadenza ravvicinatissima, senza consultazioni.
L’aspetto peggiore è che si possono ricordare infiniti altri momenti in cui l’unità di intenti, di obiettivi e di strategie sono state disattese. Come non riandare con la memoria alla reazione in ordine sparso di fronte alle Primavere arabe, alla confusa posizione assunta di fronte al conflitto in Ucraina, al continuo ondeggiare nei rapporti con Russia e Cina, al traccheggiare con il Venezuela per difendere propri privilegi o al neocolonialismo dimostrato più volte con i paesi africani?
Tutto questo fa emergere un fatto incontrovertibile: nelle loro politiche estere i maggiori paesi europei non hanno mai voluto rinunciare al proprio interesse nazionalistico, tanto che l’Alto rappresentante, al di là della figura che ne ha ricoperto il ruolo, si è dimostrato poco più che uno specchietto per le allodole, potendo contare su un potere e un raggio d’azione pressoché nulli.
A questo punto, soprattutto dopo la vicenda dei curdi in Siria e alla vigilia di un auspicabile processo di nuova governance delle istituzioni europee, è venuto il momento di essere realisti: bisogna affrontare alla radice il nodo della politica estera comune, bisogna prendere il toro per le corna, se non si vuole, in un futuro anche non troppo lontano, che l’Unione europea finisca con il diventare un vaso di coccio sempre più fragile e via via meno credibile. Due i passi irrinunciabili da intraprendere.
Primo: occorre mettere ogni Paese di fronte a una scelta radicale. E occorre farlo – diciamo così – in modo solenne, anche attraverso una consultazione referendaria: si accetta o non si accetta una maggiore condivisione nelle strategie e negli obiettivi per garantire una più efficace e coesa politica estera comune, a difesa di tutta l’Europa e dei suoi paesi membri? I paesi che non dovessero accettare questa impostazione, dovrebbero – coerentemente – abbandonare l’Unione europea.
Da questo punto di vista, per chi rimane nell’Ue l’uscita della Gran Bretagna, Paese da sempre euroscettico e alla costante ricerca di una maggiore indipendenza, soprattutto in politica estera, e un’opportunità in tal senso, non un problema da gestire.
Secondo passo: sui temi della politica estera, l’Unione europea così ripensata dovrebbe potenziare il ruolo del Parlamento europeo e della Commissione Ue rispetto al più divisivo Consiglio degli Stati. Fino a quando un primo ministro o ministro degli Esteri di ciascun singolo Paese può porre il veto o ostacolare le decisioni della maggioranza degli Stati, al di là delle intenzioni non si supererà mai l’inconcludenza della diplomazia europea.
Se i paladini delle rigide – e stupide (lo disse Prodi già nel 2002) – regole economiche spendessero un decimo delle loro energie per questo tentativo di unità di azione in un campo così fondamentale, l’Unione europea potrebbe spiccare il volo, a tutto vantaggio non solo dei governi, ma soprattutto degli stessi singoli cittadini.
Sì, la politica estera europea può e deve valere almeno come la Champions League.