Cambiare la maturità non può diventare un elemento di narcisismo dell’ultimo ministro, dobbiamo dare agli studenti un orizzonte temporale su cui prepararsi”. Così Lorenzo Fioramonti, ministro dell’Istruzione in carica. Sottoscriviamo e lo prendiamo in parola. La formazione delle giovani generazioni è materia troppo importante e delicata perché i responsabili politici la topicchino continuamente di qua e di là con interventi del tipo “improvviso, ergo sum”.

La storia, oltre che il buon senso, danno ragione a Fioramonti. Prendiamo appunto l’esame di maturità. Alla vigilia dell’unità d’Italia esso fu regolato dalla legge Casati del 1859; le norme rimasero in vigore per 74 anni, sino alla riforma del sistema scolastico firmata da Giovanni Gentile. L’esame di maturità dell’Italia repubblicana riparte, dopo lo sconquasso della guerra, sostanzialmente com’era prima, con la riforma del democristiano Guido Gonella del 1951 e dura sino al 1969. Con Fiorentino Sullo gli scritti scendono da quattro a due, e gli orali sono su due materie.Il voto in sessantesimi. Di nuovo non per un intervento spot, ma a valle della riforma scolastica connessa alla crescita economica del dopoguerra e alla scolarizzazione di massa. Questa formula durerà quasi trent’anni, fino alla riforma di Luigi Berlinguer, di nuovo all’interno di un disegno di riforma più ampio: introduzione della terza prova scritta; orale su tutte le materie dell’ultimo anno, voto in centesimi con introduzione dei crediti; importanza anche alla lingua straniera. L’ammissione avviene d’ufficio.

Dopo Berlinguer comincia la giostra del topicco. Non subito: per dire, la Moratti non si avventa in improvvisazioni. Ma i successori, invece, quasi tutti, sì. Il 2008 è l’anno di Giuseppe Fioroni, che cambia l’ammissione (non d’ufficio ma con la media del sei fra tutte le materie), la commissione (mista), i pesi dei crediti sul totale del voto. L’anno dopo la Gelmini cambia i criteri di ammissione: adesso occorre la sufficienza in tutte le materie. Nel 2012 Francesco Profumo (governo Monti) neanche lui resiste alla tentazione di lasciare il suo segno di Zorro, anzi di Ferri (detto anche il ministro dei 110 all’ora) annunciando per il 2015 una quarta prova scritta, simil-prova Invalsi. Non se ne fa nulla: tempo di annunciare ed è già cambiato governo. Da Letta a Renzi. Debutta la “Buona Scuola”, con l’alternanza scuola-lavoro destinata a entrare organicamente nel processo dell’istruzione e dello stesso esame di maturità, ma giustamente solo nel 2019. C’è un’idea di disegno organico, non il tempo di attuarlo. Marco Bussetti, governo gialloverde 2018-19, toglie l’alternanza scuola-lavoro dai criteri di ammissione, come pure la prova Invalsi, e la rende un dettaglio da nulla all’esame orale; il massimale del credito scolastico passa da 25 a 40 punti; si è ammessi con 6 in tutte le materie, salvo intese, nel senso che il Consiglio di classe potrebbe decidere diversamente e ammettere chi ha insufficienze. Basta terza prova, il “quizzone”; via il tema di storia; via la tesina; dentro le tre buste contenenti l’argomento-spunto per il colloquio orale, che il candidato pesca. E siamo già a Fioramonti, il ministro (da un mese) che abbiamo preso in parola. Ma, ahimè, mi sa che tocca ricrederci. “Sulle buste – ha detto Lorenzo il ministro intervistato dal sito Tecnica della Scuola – stiamo valutando quale intervento fare: garantiscono trasparenza, però necessitano di tempo e risorse. Vorrei evitare che ore e ore si perdessero per cercare di distribuire quesiti”. E la prova Invalsi? Fioramonti si dice sì a favore della valutazione, ma non obbligatoria, perché spaventerebbe alunni e docenti. E il tema di storia? Magari lo reintroduciamo, lascia intendere il ministro. Ma allora ci saranno provvedimenti, quali e quando? “Lo vedremo nelle prossime settimane”.

Insomma, non c’è verso. Il giallorosso deve cancellare il gialloverde e il ministro contraddire il suo predecessore (di cui peraltro è stato sino a un mese fa sottosegretario), in una catena di schermaglie senza visione, senza un quadro organico coerente, senza la previsione di un tempo idoneo a lavorare per il confronto, la convergenza, il massimo possibile di unità di intenti. Prima ancora tempo da dedicare all’ascolto delle esigenze e dei bisogni reali della società e dei diretti interessati. È evidente che se non si fa così si combinano piccoli o grandi disastri in ogni settore, pensiamo solo alle infrastrutture e ai comparti produttivi strategici. A maggior ragione nel campo della scuola, dove la materia non sono piloni, rotaie e tondini, ma persone nella fase delicata e preziosa della formazione del proprio sapere e insieme della fisionomia matura del proprio io.

Ecco, toccatemi tutto, cari politici, ma non toccatemi l’educazione. Non topiccate. Non aggiungete incertezze su incertezze ai poveri maturandi di una generazione, oltretutto, che di punti di riferimento, a cominciare dai padri, ne ha assai pochi.

Si può essere visibili con annunci meno nocivi. Come, che so? Una tassa sulle patatine. Fanno malissimo ai bambini, più delle merendine. Comunque molto meno male di ritocchi, lifting, pezze e trucco improvvisati sul loro percorso di istruzione ed educazione. Tanto poi le patatine le mangiamo lo stesso.