Per tutta la scorsa settimana, Barcellona si è svegliata ogni mattina come se ogni notte non ci fosse stata, per le sue strade, una battaglia campale, un rituale di distruzione con una guerriglia urbana che cerca di riempire il vuoto del nulla con la violenza. Mentre i cassonetti bruciavano e i radicali causavano centinaia di feriti, i ristoranti vicini alle zone degli scontri restavano aperti. È stata la volontà di far continuare la vita di sempre, nonostante tutto? È stato un silenzio autoimposto in una società divisa per non aprire più ferite?

La violenza non è attuata ma giustificata da coloro che pensano che sia arrivato il momento della rottura dopo la sentenza di condanna della Corte Suprema. Questo è il calcolo politico dei due principali partiti politici indipendentisti che continuano a competere per la leadership mentre la Catalogna brucia. C’è incomprensione e senso di impotenza in gran parte della società catalana di fronte a una condanna che sembra esagerata, in quanto 12 o 13 anni di carcere sono visti come un eccesso quando non ci sono in ballo delitti sessuali, né crimini di sangue, ma solo l’approvazione delle leggi per votare sull’autodeterminazione, un referendum illegale e una dichiarazione di indipendenza sospesa. L’altra metà della Catalogna e il resto del pensiero degli spagnoli – incitati dagli opinion leader, da una lobby liberale e dai partiti di destra in campagna elettorale – pensano invece che la Corte Suprema sia stata troppo morbida e che era ammissibile soltanto una condanna per ribellione con più di 20 anni di prigione. Senza voler comprendere i ragionamenti giuridici, senza volersi accorgere che la giustizia non è vendetta e che non si risolve niente lasciando qualcuno in prigione per più di due decenni. È un quadro di mancanza di comunicazione, di incomprensione reciproca. Senza leader capaci di dare risposte, con una società civile scomparsa, senza quasi nessuno disposto a essere sincero, senza un’educazione all’altezza delle circostanze.

Il tempo dirà se la violenza vissuta tra il 14 e il 20 ottobre in Catalogna ha un legame funzionale con i piani del Presidente della Generalitat Quim Torra e dell’uomo che detta i suoi passi da Bruxelles, Carles Puigdemont. Dalle sue azioni e dalle sue dichiarazioni, tuttavia, si deduce che l’ha ritenuta utile per i suoi scopi, per raggiungere rapidamente l’autodeterminazione. Ciò spiega perché non ha condannato la violenza in modo chiaro ed esplicito, perché non ha sostenuto il suo ministro dell’Interno, Miquel Buch, perché non ha incoraggiato e sostenuto l’operato – ma anzi ha paradossalmente seminato dubbi – del corpo di polizia di cui è responsabile, i Mossos.

In questi giorni è tornata a compiersi la descrizione che la sentenza ha fatto su ciò che è accaduto il 1° ottobre del 2017. Torra (copia di Puigdemont) era “consapevole della manifesta invalidità giuridica di un referendum di autodeterminazione che è stato presentato come la via per la costruzione della Repubblica catalana”, ma nonostante ciò ora ha cercato di usare a proprio favore la confusione e il risentimento. Per vincere la battaglia tra gli indipendentisti, per sopravvivere personalmente.

I leader dell’Erc, il primo partito nei sondaggi e con cui Torra governa nella Generalitat, che riconoscono che l’autodeterminazione è irrealizzabile, che sanno che è necessario dimenticarsi una Catalogna indipendente, almeno per ora, non hanno rotto con la copia di Puigdemont, non hanno avuto il coraggio di fare quel passo che ci si aspetta da anni e che non arriva. Il loro obiettivo immediato è vincere le elezioni che si terranno il prima possibile. Per questo non hanno difeso i Mossos e non hanno detto ai loro elettori che occorre ricominciare da capo. E l’indipendentismo sociale, circa meno della metà di coloro che votano, non ha avuto né forza né chiarezza per affrontare le persone violente che gli stavano togliendo il titolo di movimento pacifico. Solo all’ultimo minuto sono comparse alcune iniziative spontanee per cercare di fermare i colpi dei radicali. Le strade sono state silenziosamente pulite e asfaltate ogni mattina quando di notte molti giovani erano affascinati dall’azione distruttiva, da un nichilismo violento guidato da professionisti dell’agitazione.

In molte case si è pianto in queste notti, in silenzio, in privato, per il fallimento di un’educazione incapace di rispondere alla potenza del desiderio di alcuni adolescenti vinti dalla causa del fuoco e degli sconti di gruppi violenti organizzati.

È difficile pensare a una via d’uscita senza che dentro l’indipendentismo ci sia chi riconosca che si è arrivati a un cul-de-sac. Ma è anche difficile che ci sia una via d’uscita senza che il costituzionalismo, maggioritario in Catalogna e nel resto della Spagna, comprenda che occorre trovare una formula creativa e originale per rispondere al desiderio di un maggiore autogoverno. Le manifestazioni indipendentiste, nonostante siano diminuite, hanno un importante appoggio sociale. Ma soprattutto non c’è via d’uscita senza che i catalani ritrovino un’esperienza elementare di incontro tra loro. Si può pensarla diversamente su futuro della Catalogna, ma questa non è la cosa più importante. Quel che è decisivo, anche se sembra poco, è l’amicizia civica che è ancora possibile. Un’amicizia fatta apparentemente di fattori irrilevanti, come la preoccupazione per il bene dei figli, la necessità di costruire una società prospera, il contributo pubblico della carità e della solidarietà, la preoccupazione per il lavoro e il suo valore, l’inevitabile domanda sul senso del tempo, della sofferenza o della bellezza.