Il fariseo assomiglia tanto a quel gallo nel pollaio ch’è convinto che il sole sorga per ascoltarlo cantare: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini (…) Digiuno e pago le decime”. Per lui pregare è trattare Dio come uno specchio: “Specchio-specchio delle mie brame, chi è il più bravo del reame?”. La domanda, com’è ovvio, ha in sé già la sua risposta: “Io non sono come gli altri”.
Dunque, snocciola a Dio tutto quello che sa fare: dice di non rubare, di essere giusto, di non andare con donne foreste. In più digiuna e paga anche le tasse, il che lo rende eroico (pensa lui). Sale al tempio come si salgono le scale di uno studio notarile: “Segnati, Dio mio, quanto ho fatto. Pagami le decime che merito per la mia bravura”.
Un proverbio della mia terra dice che nessuno è più facile a vantarsi di coloro che hanno minore merito. Tutto preso dal suo elenco di cose fatte, si è scordato che la preghiera è dire grazie a Dio per le cose che Lui ha fatto per noi più che per le cose che noi abbiamo tentato di fare per Cristo. Non c’è ignoranza più grande di chi vuol farsi bello di fronte a un Padre parlandogli male del figlio suo: “Io non sono come gli altri”. Il fariseo è un mammalucco: gli riesce difficile raccontare di sé senza tirare in ballo gli altri. Ha capito che non ci si salva da soli: non è poco. Però usa gli altri come sgabelli per mettersi sopra: fare paragoni è tipico di chi si mostra sicuro di sé per nascondere la sua nullità.
Cristo, per il suo bene, lo fa cascare dallo sgabello giusto mentre gli altri lo stanno guardando, catturati dalla spocchia: “Il pubblicano, invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo (…) O Dio, abbi pietà di me peccatore”. C’è gente tutta tronfia che si vanta delle pagine che ha scritto, delle cose che ha fatto; c’è gente che va fiera delle pagine che ha letto, di cose che ha ricevuto. Il pubblicano è un peccatore: sente di esserlo, non si vergogna di confidarlo a Dio, Gli chiede d’intervenire in suo soccorso. Per lui la preghiera è una forma di primo-soccorso: “Sono caduto, aiutami tu che sai stare in piedi!”.
Cesare Pavese, parlando del peccato, ne tratteggiò un’immagine folgorante: “Non è un’azione piuttosto che un’altra, ma tutta un’esistenza mal congegnata”. Il fariseo ha calcolato male il tiro: pensava d’essersi comprato i favori di Dio per il semplice fatto d’avercela fatta da solo a fare il bravo, senza mai sbagliare.
La cosa buffa, però, è che Dio ama proprio l’opposto: all’uomo che vuol farsi da sé preferisce l’incapace capace di chiedergli una mano. Il Vangelo intero è retto su questa trave portante: “È questo che il Figlio dell’uomo ci chiede – scrive Mauriac -: diffidenza delle nostre forze, abbandono a occhi chiusi a una infinita misericordia”.
Lui, così rigido con i dottori e i farisei, si addolcisce teneramente con i peccatori, i “piccoli” preferiti: “Io vi dico: questi (il pubblicano), a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”. Siccome il fariseo capisce solo i paragoni, la risposta di Cristo è un paragone: “A differenza dell’altro”. Dio cecchino.
Giorni addietro, tra il ferro-cemento del nostro carcere, ho intercettato una frase d’immensa speranza. Un uomo, parlando di ciò ch’è riuscito a fare dentro, mise la firma d’autore alle sue parole: “Ci siamo fatti tutto da noi: nessuno ci ha aiutati”. Tutto attorno lo stupore degli astanti: mai, prima d’allora, avevano visto un carcere da dentro. Guardandolo ho pensato: “Meno male ti sei arrangiato, così che Dio non avrà nessuna responsabilità un domani”. Non sono i peccati della debolezza che importano a Dio: “Dio, abbi pietà di me peccatore”. Sono i peccati della forza che lo infastidiscono da morire: “Io non sono come gli altri”.
Dal pulpito-senza-pulpito Cristo addestra alla battaglia: “Chi cade in peccato è un uomo – il fariseo e il pubblicano sempre sullo sfondo – , chi se ne duole è un santo, chi se ne vanta è un diavolo”. E le sue opere saranno tutte diavolerie.