Se ad Angela Merkel è rimasta un’ultima riserva di leadership europea; se Emmanuel Macron è davvero convinto di voler e poter riformare l’Ue, entrambi – possibilmente assieme – potrebbero cominciare da un semplice gesto: chiedere a Mario Draghi se è disponibile a dare loro una mano. Se dopo aver fatto whatever per salvare l’euro – missione compiuta dopo otto anni al vertice Bce – il banchiere italiano ha voglia di collaborare a “tutto quello che è necessario” per salvare l’Unione. Ciò che è ancora tutto da fare, anzi: che nessuno sembra in grado di fare. A cominciare da Ursula von der Leyen, la presidente designata della Commissione Ue.
Quest’ultima, in teoria, è chiamata a pilotare cinque anni “costituenti”: nei quali l’Europa di Roma (1957) e poi di Maastricht (1991) dovrebbe maturare un suo new deal, un Terzo Patto. In concreto l’ex ministra tedesca non ha avuto l’appoggio del suo stesso Paese nel consiglio Ue che l’ha indicata e sarebbe stata bocciata dal Parlamento europeo appena eletto se non avesse ricevuto in extremis i voti controversi dai populisti italiani di M5S. Con questi preliminari, nessuno si stupisce che von der Leyen non possa subentrare a Jean Claude Juncker alla scadenza ordinaria dell’1 novembre. Nel frattempo, infatti, Strasburgo ha bocciato tre nuovi commissari sui 26 indicati dai Paesi-membri: fra questi la francese Sylvie Goulard. Ma l’1 dicembre la commissione von der Leyen riuscirà davvero a prendere il largo? E con quale rotta?
L’unica evidenza certa è quella di un’Europa lacerata e di un‘eurocrazia paralizzata. Attorno, intanto, da Brexit al Medio Oriente, dalla competizione geopolitica fra Usa e Cina alla pressioni che giungono dall’Africa come dalla Russia, tutto chiama ogni giorno il Vecchio Continente a sfide nuove e urgenti. Le sfide più impegnative, tuttavia, giungono dall’interno dell’Unione: e non importa se a portarle – in superficie – sono i gilet jaunes francesi, la nuova destra tedesca, i sovranisti italiani o gli indipendentisti catalani. Al di sotto di sommovimenti spesso violenti diseguaglianze ed esclusioni chiedono di essere affrontate e risolte. Sono sfide politiche da precludere a maggior ragione ora ai tecnocrati?
È la prima obiezione che certamente verrebbe mossa a una candidatura Draghi nel caso – senza precedenti ma non più considerato remoto – di una “crisi di governo” a Bruxelles. Oppure di una sua chiamata a ruoli di nuova istituzione – anzitutto quello di “ministro delle Finanze” dell’Ue – che non sembrano poter più attendere i tempi lunghi della vecchia Ue. Paradosso vuole che a Draghi sia stato tributato un omaggio unanime dalla politica – perfino dall’ex super-falco tedesco Wofgang Schauble – mentre a criticare il presidente della Bce in uscita siano stati quasi solo vecchi tecnocrati del Nord Europa: a conferma di quale sia il vero “muro” che oggi divide l’Ue dai 500 milioni di cittadini europei.
Ricevendo pochi giorni fa alla Cattolica di Milano una laurea honoris causa per una vita anzitutto da economista, Draghi ha ripetuto le parole-guida suo “vangelo” di banchiere centrale: conoscenza e competenza, coraggio personale e civile, fiducia nell’Europa e in tutti i suoi Paesi-membri. Lui a Francoforte lo ha messo in pratica ogni giorno. Anche ieri, quando ha speso il suo ultimo giorno da “custode dell’euro” lavorando: rammentando ai capi di Stato e di governo che la politica fiscale europea deve cambiare passo in fretta.