Che Paese è quello in cui si coltiva l’illusione di poter redistribuire la ricchezza senza produrla? Che Paese è quello in cui si dice no agli investimenti produttivi e infrastrutturali, all’industria 4.0, agli inceneritori? Che Paese è quello in cui l’ideologia della decrescita felice anche se non più declamata, è di fatto praticata, quello in cui l’idea stessa di industria è vissuta come un male, o una vacca da mungere?



Prendiamo ad esempio la vicenda dell’ex Ilva di Taranto. Tutto cominciò con la perizia ambientale ordinata dal magistrato Patrizia Todisco: si appurò che ogni anno si sollevavano verso la città circa 700 tonnellate di polveri di ferro e carbone, con conseguenze disastrose per la salute delle persone. L’agenzia per l’ambiente della Puglia aveva sempre denunciato che l’unica possibile soluzione al problema fosse la copertura dell’area, ma la famiglia Riva, proprietaria dell’Ilva, si era sempre opposta. Da lì in poi una vicenda fatta di continui colpi di scena: chiusure dell’impianto, arresti, sottrazione dell’impresa ai Riva, ricerca affannosa di un acquirente tra due “partiti” opposti, quello del lavoro e quello dell’ambiente, come se si potesse fare a meno di uno di essi. Fino all’arrivo del governo Gentiloni e del suo ministro dello sviluppo Carlo Calenda.



Il ministro sembrava aver risolto tutti i problemi quando vendette l’Ilva al gruppo franco-indiano ArcelorMittal con una serie di accordi vincolanti. Il gruppo si impegnò a riportare la produzione sui 6 milioni di tonnellate con un investimento di 4,2 milioni di dollari, di cui 1,3 per il risanamento ambientale e gli altri per l’acquisto e il rilancio industriale. Il gruppo si impegnò a eliminare le polveri su Taranto attraverso la copertura dei parchi minerari. Ma in realtà lo psicodramma non era finito.

La crisi dell’acciaio ha impedito che la produzione attuale raggiungesse la cifra prevista: si è ancora fermi a 4,5 milioni di tonnellate. Tuttavia il gruppo siderurgico non si è rimangiato l’impegno preso. Dal 1° novembre 2018, data di subentro a Ilva in amministrazione straordinaria nella gestione, ha pagato i debiti ceduti dei fornitori dell’indotto e ha assegnato a nuovi fornitori locali contratti per oltre 200 milioni di euro. E sul fronte ambientale è di questi giorni la notizia dell’installazione nel reparto Cokerie di un filtro a manica che rappresenta un nuovo sistema di depolverazione: un metodo, unico in Europa, che raffredda i fumi, prima di filtrarli per poi raccoglierli e smaltirli secondo le norme di legge. La stessa, o tecnologie simili, sarà applicata ad altri camini. Non solo: sono cominciati i lavori per la costruzione del Centro Ricerca e Sviluppo che, grazie a un investimento di 10 milioni di euro, studierà da gennaio 2020 il miglioramento delle prestazioni ambientali e l’ampliamento della gamma dei prodotti assumendo 32 ricercatori.



Rispetto a questo percorso positivo, quello che è cambiato più volte è la posizione dei politici, soprattutto i grillini, succedutisi a Calenda. Prima il “balletto” di Luigi Di Maio, con la conferma di una immunità penale per i dirigenti del gruppo per i danni ambientali precedenti alla loro gestione; poi l’ennesimo voltafaccia, concretizzatosi nell’emendamento di 17 senatori grillini (prima firmataria Barbara Lezzi, ex ministro per il Sud nel governo gialloverde) alla commissione Industria e Lavoro del Senato, che ha revocato l’immunità.

Marco Turco, docente di Economia all’Università del Salento, sottosegretario alla presidenza del Consiglio per lo sviluppo economico in una intervista al Foglio ha affermato: “Taranto può e deve pensare al suo futuro senza vederlo legato allo stabilimento dell’ex Ilva”. Lorenzo Fioramonti, ministro della Pubblica Istruzione, in un incontro con gli studenti delle scuole superiori a Taranto ha dichiarato che ArcelorMittal Italia, rappresenta “un modello industriale che stenta sempre più ad affermarsi e ad essere sostenibile anche dal punto di vista economico… Avrei preferito da subito una riconversione economica accelerata…”. È una posizione che fa proseliti: Dario Stefàno, vicecapogruppo dei senatori Pd, ha il coraggio di affermare: “È cambiato il governo, è cambiata la maggioranza che lo appoggia, è cambiato il vertice di ArcelorMittal che gestisce l’ex Ilva. Ci può stare un pit stop”.

Chi ha capito la gravità della situazione sono stati Marco Bentivogli, Francesca Re David e Rocco Palombella leader dei sindacati dei metalmeccanici Fim-Cisl, Fiom-Cgil, e Uilm-Uil che chiedono al ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, una “convocazione urgente” al ministero su ArcelorMittal, “per una verifica degli impegni assunti tra le parti con l’accordo di settembre 2018” paventando che “la decisione di abrogare la norma che prevedeva non una immunità penale ma una immunità limitata alla realizzazione del piano ambientale comporti “nella migliore delle ipotesi il rischio di una drastica riduzione dell’occupazione, nella peggiore il prologo ad un disimpegno a lasciare il nostro Paese”.

Qual è il destino pensato per Taranto? Gli allevamenti di cozze o non precisate industrie del divertimento. Non c’è bisogno di prospettare un piano: l’orizzonte non è il futuro del Paese, ma le prossime elezioni. Se si andrà avanti così non si potrà che andare incontro a un crollo della base produttiva da cui sarà davvero dura risalire.