È vero che il sistema democratico, nato e consolidato per un lungo periodo storico in Occidente, sia in sofferenza in tanti Paesi del mondo, persino in quelli dove i meccanismi della democrazia sono così profondamente radicati da diventare automatismi normali, dopo centinaia di anni. Ora, invece, i rapporti tra i poteri entrano, in diverse occasioni, in crisi anche gravi e i toni usati dai leader delle attuali forze politiche sono spesso sopra le righe. Le rivoluzioni drammatiche che hanno creato faticosamente le democrazie sembrano quasi rimesse in discussione, ripensate, e si scopre anche, davanti a un passaggio epocale come quello in cui viviamo, che non si possono mai “mettere le brache alla storia” e che probabilmente la democrazia del futuro, per essere salvaguardata nella sua essenza centrale, dovrà subire dei mutamenti, delle modifiche auspicabilmente le più leggere possibili, per evitare di cadere in forme mascherate di autoritarismo e nello stesso tempo per garantire libertà, sistemi economici efficienti, equità e diseguaglianze sociali limitate al massimo.
Ma detto questo del mondo con antiche tradizioni democratiche, occorre convenire che la relativamente giovane democrazia italiana soffre di uno stato di confusione, di allarmante concitazione, di una continua necessità di eccezione ed emergenza che lasciano quasi esterrefatti e fanno pensare al peggio, se non addirittura a un collasso sociale.
Tocchiamo solo alcuni punti che emergono in questi giorni. Siamo a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, cioè, per chi lo avesse dimenticato, al crollo definitivo del mondo comunista classico come spiegava Francois Furet, non quello “turistico tropicale” o quello anomalo della Cina, che fa una brutale sintesi di maoismo, capitalismo e confucianesimo. C’è una necessaria considerazione da fare: quell’utopia che è vissuta sotto regimi dispotici e sanguinari ha riguardato certamente tutti, ma soprattutto, in Italia, il Partito comunista italiano. Ci sarà pure una ragione per cui ha cambiato nome e quel mutamento si è attuato tra contrasti durissimi nella cosiddetta “svolta della Bolognina”.
“L’uscita a sinistra” (così veniva definita) di Achille Occhetto fu letteralmente irrisa da personaggi come Emanuele Macaluso e Giorgio Napolitano, che volevano finalmente far parte del movimento socialista democratico dell’Europa occidentale da cui i comunisti erano tassativamente esclusi. C’è qualcuno che lo ricorda o no? Oppure fa finta di dimenticarlo, soprattutto tra masse di giornalisti “amici”?
Eppure il grande festival mediatico italiano sembra che stia celebrando più la “svolta coraggiosa” della Bolognina piuttosto che il crollo del Muro di Berlino. Viene intervistato, per un “giudizio illuminato” anche il professor Luciano Canfora, il “luminare” che ha scritto “La democrazia. Storia di un ideologia” e che in Germania la casa editrice C.H. Bech si è rifiutata di stampare. Così ha giudicato lo storico Hans Ulrich Wehler il libro di Canfora: “Si tratta di un pamphlet comunista come non ne avevo visti da anni. Nella sua stupidaggine dogmatica supera anche i prodotti della DDR fatti negli anni Sessanta e Settanta”.
Intanto Occhetto, forse in stato confusionale, straparla oggi in televisione di neocapitalismo, come ai tempi di Ingrao e Trentin (con cui era in simbiosi), guardandosi bene dal citare Giorgio Amendola, l’avversario di sempre, il grande riformatore che parlava di superamento del leninismo sin dal 1964, di partito unico della sinistra italiana non più comunista, di lotta al “capitalismo straccione” italiano e della necessità della programmazione democratica.
Amendola, prima di morire, si beccò, nel comitato centrale del novembre del 1979, dal segretario Enrico Berlinguer (che passa per il grande, santo, revisionista!) dell’ignorante sul marxismo-leninismo e di uno che aveva dimenticato le grandi lezioni di Lenin. Ora di Amendola non si parla più, è vietato parlarne, mentre tutti gli altri sono diventati improvvisamente riformisti (e poi liberisti), compreso Occhetto e la sua “congregazione” di presunti rivoluzionari sconfitti dalla storia. Mentre Giorgio Amendola resta un grande rivoluzionario, che è scomodo, per tutti gli ipocriti, quanto lo fu Filippo Turati prima del fascismo.
Non è un dettaglio, o un ricordo storico interessato tutto questo. Ma una questione fondamentale da comprendere a che punto siamo arrivati. Se si pensa che il Partito democratico dovrebbe ridare credibilità alla sinistra, cosiddetta riformista, ricostruire una visione per i lavoratori (che esistono ancora) non si capisce perché anche Romano Prodi (uno degli svenditori dell’Italia industriale insieme al suo maestro Beniamino Andreatta) abbia sottolineato una continuità tra Pd e Pci, piuttosto che un autentico rinnovamento riformista.
Forse anche il professore, o “il re dei babbei”, secondo Enrico Cuccia, è uno che ha le idee confuse sulla democrazia e non comprende, ancora nel 2019, che per creare la sinistra del futuro, che è quanto mai necessaria, occorre rendersi conto che sta crollando come cartapesta tutto il mondo giustizialista, moralista e antidemocratico che ha rappresentato, direttamente e indirettamente, il comunismo italiano in tutti questi anni, anche dopo il crollo del Muro. Un partito, è bene ricordarlo, che si offendeva quando si parlava di riformismo e aveva cominciato la sua parabola suicida brindando quando i carri sovietici invadevano Budapest nel 1956 e uccidevano le persone per strada.
Questo è uno stato di confusione storica voluta e alimentata da “amici degli amici”. Ma è in fondo uno dei motivi fondamentali della zoppicante democrazia italiana di questi giorni, della sua squallida ipocrisia. Una democrazia che è costretta a fare un’ammucchiata di “rissosa maggioranza”, che oscilla tra il tragico e il paracomico, per contenere la scalata di uno schematico personaggio come Matteo Salvini, che ha pure tratti inquietanti di autoritarismo e sbrigatività. Lo spettacolo tra Pd, “pentastellati”, Leu e altri, è degno del cinema Smeraldo dei tempi d’oro.
Spaesata nella sua identità politica, questa maggioranza, costituita da incompetenti e di ignoranti politici, veramente rara, ha combinato un “pasticcio” senza precedenti, quasi inimmaginabile sull’affare Ilva, dove ventimila persone rischiano di restare senza lavoro. In più, questa combriccola di analfabeti politici sta litigando al suo interno da mesi e il partito di maggioranza relativa attualmente in Parlamento è diviso al suo interno (non ha nominato neppure il capogruppo) ed è in contrasto con gli altri soci di governo.
E mentre il Pd discute sulla sua storia passata e le sue prospettive da creare, tra luoghi comuni e balle storiche vergognose, dopo l’Ilva è nata un’altra emergenza; l’acqua alta a Venezia. Ancora liti, accuse e controaccuse, ricordi sul “Mose” con il presidente del Consiglio che corre sui posti (non si capisce per quale motivo) senza cravatta, senza pochette al taschino e senza soluzioni da proporre. La controfigura di Carlo Dapporto, un grande comico del passato
Se la democrazia è in crisi o in fase di assestamento nel mondo abituato alla libertà, l’Italia è entrata nella fase della sua particolare democrazia: una accolita di incapaci che crea solamente paura e ha pure il coraggio di mantenere questo governo fino alla elezioni del prossimo presidente della Repubblica. Scandalo o vergogna? La questione semantica non è affatto semplice.