Una intensa discussione si è svolta ieri a Napoli nell’Aula magna dell’Università Federico II di Napoli a trent’anni dal crollo del Muro di Berlino. Vi hanno partecipato Biagio de Giovanni, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Macry e Angelo Panebianco. Riassumo la mia introduzione. Con il crollo del Muro si chiude la storia aperta nel 1917 con la rivoluzione d’Ottobre. Il comunismo che si era rappresentato come agente di un progresso storico razionale e irreversibile si era risolto in un’onnivora filosofia della storia, aveva smarrito ogni tensione universalistica, si era trasformato in un potere repressivo.

Alla vigilia di quel 9 novembre, che la questione tedesca potesse tornare all’ordine del giorno della politica europea era un’ipotesi che non veniva presa in considerazione. Sembrava che sotto il peso della memoria di una storia tragica la Germania orientale e quella occidentale  avessero deciso, come scrive Angelo Bolaffi, di “darsi per sempre le spalle”.

Ancora nell’autunno di quell’anno, quando già c’erano state le manifestazioni di Lipsia, Dresda e Berlino l’ambasciatore sovietico a Berlino Est, a un giornalista che gli aveva chiesto un parere sulla possibilità di una futura riunificazione tedesca, aveva risposto che “nessun uomo può sperare di diventare tanto vecchio per vederla”.

Sappiamo come andarono le cose: l’anno successivo, il 3 ottobre 1990 la Germania celebrava la sua riunificazione. Due anni dopo, l’8 dicembre 1991 fu firmata la dichiarazione di dissoluzione dell’Urss e a due settimane di distanza ammainata la bandiera rossa che sventolava dal novembre del 1917 sopra il Cremlino. In poche settimane tutti i regimi comunisti implosero in una successione di “rivoluzioni di velluto”: Budapest, Praga, Sofia e infine, nell’unico avvenimento cruento, Bucarest.

Gorbaciov guardò alla rapida disgregazione del regime tedesco orientale senza aprire spiragli alla tentazione della risposta repressiva. Privo del sostegno militare di Mosca, il regime tedesco orientale non era in grado di sopravvivere. La caduta di quei regimi fu possibile grazie alle scelte compiute da Michail Gorbaciov.

L’ultimo segretario del Pcus liquidò la concezione del potere che aveva portato alle tragedie del 1953 a Berlino Est, del 1956 a Budapest, del 1968 a Praga. Dinanzi all’elezione a Varsavia del primo capo del governo non comunista nell’agosto del 1989, alle manifestazioni nella Germania orientale, alla apertura del confine tra l’Ungheria e  l’Austria con l’esodo di massa del tedeschi dell’Est, Mosca si trovò ad un bivio drammatico: la scelta di rinunciare all’uso della forza per difendere il dominio imperiale creato da Stalin, costituì la premessa di un cambiamento radicale.

Gorbaciov passerà alla storia per il suo tentativo di riforme e il suo spettacolare fallimento storico. Il suo ideale di un socialismo umanitario lo portò a varare  riforme insostenibili per le compatibilità del sistema. Riforme che ne innescarono l’autodissoluzione.

I comunisti riformatori in Europa si sentivano riscattati dall’avvento di Gorbaciov. Anche il Pci, fiero che l’eurocomunismo fosse divenuto una delle fonti di ispirazione alle quali Gorbaciov si riferiva esplicitamente per formulare le proprie idee. I comunisti italiani, per lo spazio d’un mattino, coltivarono l’illusione che accanto alla socialdemocrazia potesse prendere corpo una versione democratica del progetto comunista in modo da mantenere una distinzione rispetto all’approdo socialdemocratico, e la perestrojka fu intesa come la dimostrazione che il sistema sovietico fosse riformabile. Ecco perché non si avvertì che il Muro stava per crollare, né fu fatto uno sforzo per far intendere ai militanti e a parte dell’elettorato come stavano le cose.

Le cancellerie dell’Europa occidentale entrarono in fibrillazione di fronte alla prospettiva della riunificazione tedesca. Mitterrand cercherà di ritardare la riunificazione, la Thatcher  giudicò la Germania più una forza destabilizzante che una forza di stabilizzazione, il Times scrisse del timore della rinascita di un Reich tedesco al centro dell’Europa. Se fosse dipeso da loro, i governi europei mai avrebbero dato luce verde alla riunificazione. Poi faranno buon viso a cattivo gioco e accetteranno quanto deciso da Stati Uniti, Unione Sovietica e Germania occidentale. La nuova Germania sorta il 3 ottobre del 1990 era il risultato non della “volontà teutonica di potenza” ma della fine dell’ordine di Jalta, della crisi del comunismo sovietico, della rivolta dei popoli che Jalta aveva ingiustamente assegnato allo spazio dominato dall’Urss.

Nei giorni che seguirono quella notte di novembre del 1989 ci si illuse che fosse arrivata l’ora della “pace perpetua”. Citatissimo in quel periodo fu il saggio del politologo americano Francis Fukuyama. In realtà la storia insegna che il mondo non si muove secondo un piano, che non c’è un ultimo capitolo della vicenda umana; insegna che tutti i trionfi sono provvisori e che non vi è nulla di più insidioso che stravincere.

A mettere in questione gli assunti ottimistici dell’epoca immediatamente successiva alla guerra fredda furono i nazionalismi etnici, gli integralismi religiosi, il terrorismo, guerre finite senza vittorie.

Oggi, a trent’anni dal 1989, si moltiplicano i segni di crisi dell’ordine politico, economico e istituzionale concepito a conclusione della seconda guerra mondiale e definitivamente affermatosi alla fine della guerra fredda. Un ordine multilaterale al cui vertice erano gli Stati Uniti, la cui egemonia perpetuava la centralità occidentale nel sistema internazionale.

Dopo l’11 settembre del 2001 e dopo la crisi economica e finanziaria questo mondo è stato investito da un vero e proprio terremoto politico di cui la proliferazione del populismo rappresenta la manifestazione più superficiale. Si guardi alle difficoltà di tenuta del tessuto multilaterale della convivenza internazionale, la Nato, il sistema di regole del commercio internazionale. Nell’arco di un ventennio il sistema internazionale è passato da una fase in cui l’egemonia americana appariva incontrastata a una in cui si parla apertamente di era post-americana e di multipolarismo. Si apre uno scenario all’interno del quale emerge la Russia: Mosca è convinta che la preminenza dell’Occidente sia in declino e che si stia costituendo un nuovo sistema multipolare al cui interno ritiene di poter giocare un ruolo.

Il vero sfidante all’egemonia occidentale è tuttavia la Cina. L’ascesa cinese si intreccia sempre più con l’indebolimento della capacità egemonica degli Usa e più in generale dell’Occidente. Quella di oggi non è la Cina “fabbrica del pianeta” di dieci, venti anni fa. Si fanno i conti oggi con una Cina che può pianificare la conquista di posizioni egemoniche nelle tecnologie strategiche, un paese la cui crescita annua delle spese militari non conosce limiti.

Infine l’Unione Europea, che dell’ordine liberale è stata una delle massime incarnazioni, mai come oggi si trova alle prese con una serie di questioni cruciali che il rallentamento della congiuntura economica espansiva rende più difficile affrontare: la Brexit, la divaricazione tra Est ed Ovest del continente, una curva demografica preoccupante, una crescita stentata. Dopo decenni di successi, scrive Angelo Panebianco, alcuni vizi di origine della costruzione europea sono venuti a galla. La crisi odierna può essere considerata una crisi nella democrazia, che riguarda alcuni aspetti del funzionamento della democrazia liberale, non le sue fondamenta. E tuttavia le radici della “recessione democratica” non vanno sottovalutate. La globalizzazione ha aumentato il benessere a livello mondiale ma ha anche contribuito al relativo impoverimento delle classi medie e dei ceti popolari nel mondo occidentale. Che questo si traduca in risentimento e rabbia sociale non dovrebbe destare particolare meraviglia.

L’interrogativo di fondo che si pone è il seguente:  riuscirà il liberalismo a trovare al suo interno le forze per correggere le sue stesse storture e adeguarsi alle sfide del presente? Si tornerà ad un clima di maggiore cooperazione globale? Ad una rilegittimazione del multilateralismo?  Sarà possibile sfuggire all’idea che ai problemi economici si risponde con chiusure commerciali? Ci saranno leadership in grado di guidare una simile impresa?

Vedremo. Il futuro è aperto ad ogni possibilità. Non solo negative. Scrive Panebianco, “il vento come tante volte è accaduto nella storia può cambiare anche rapidamente”. Questa la nostra ragionevole speranza.