È possibile riprendere le fila di un’idea, di un percorso, di un ragionamento in questo martoriato paese? La situazione di dissesto idrogeologico che assedia l’Italia in questi giorni, da Venezia a Matera, dalla Campania al Trentino, è la metafora di una nazione imbrigliata nei suoi stessi mali, la corruzione e la burocrazia, una nazione intrappolata in un presente che è diventato una specie di incubo da cui sembra impossibile poter uscire.

Il declino di affidabilità del nostro sistema – forse l’assenza stessa di un sistema – sta spingendo alla fuga decine di aziende investitrici estere e ha già portato alla svendita altrettante realtà imprenditoriali nostrane: si aprono tempi difficili per l’occupazione, per la tenuta dei conti pubblici e per la preservazione del sistema sociale che tanto ha garantito in termini di assistenza e solidarietà negli ultimi settant’anni. La politica sembra essere compressa nell’eterno tentativo di perpetrare se stessa, senza una piattaforma capace di una visione d’insieme delle cose e dei problemi. L’Europa annaspa, con la Gran Bretagna in fuga, la Spagna nel caos, la Francia divorata dal nazionalismo e la Germania alle prese con una difficile transizione.

Un quadro disgregato, insomma, che fa comodo agli interessi isolazionistici statunitensi, alle mire espansionistiche russe e alle strategie di mercato dei cinesi. Ma quanto potrà durare tutto questo? Quanto si potrà andare avanti dentro questa continua emergenza che sembra oggi la vera cifra con cui il paese si prepara ad entrare negli anni venti? Esiste ancora una qualche forma di speranza?

Se provassimo per un istante a trattare l’Italia come una persona, sarebbero cinque le cose che potremmo suggerirle per provare a ritrovare se stessa e la propria dignità.

Anzitutto le consiglieremmo di fermarsi, di radunare intorno ad un tavolo le aree politiche della nazione per dare vita ad un governo di tregua, di decantazione, col chiaro compito di riscrivere le regole del gioco e i fondamentali dello Stato. Poi le chiederemmo di raccontare a se stessa la verità, di dirsi che non ci sono i soldi per far tutto e che con un grande debito nessuno può andare lontano, elencando ai cittadini che cosa non si potrà più fare per circa un decennio, dall’andare in pensione a 62 anni a percepire un reddito senza far niente. In terzo luogo la spingeremmo a prendere sul serio le scelte che ha fatto nella propria “vita”: quella europeista, quella atlantica, quella di mediazione nel difficile ginepraio della politica mediterranea e nella polveriera mediorientale per recuperare la forza di un’identità fondata sul dialogo e sulla mediazione. In quarto sarebbe utilissimo tracciare un quadro delle prospettive di crescita che i diversi settori del paese possono avere, impiegando le risorse disponibili nel taglio del costo del lavoro, nell’istruzione e nella modernizzazione delle infrastrutture dei trasporti e di rete, permettendo agli enti locali di sforare il patto di stabilità per intervenire laddove il territorio è più fragile e ha più bisogno di attenzione e di opere di prevenzione.

Infine occorrerebbe una gigantesca moratoria sul passato: smetterla di vivere cercando colpevoli e burattinai di ciò che è stato, pacificando il dibattito pubblico e dotando il paese di uno scudo giudiziario temporaneo e straordinario per tutti coloro che investono nei settori strategici per lo sviluppo del paese.

Dall’emergenza si esce solo recuperando il senso di essere comunità, la forza di un’identità e di un compito, le potenzialità e il contributo di tutti. Con lo sguardo agli anni trenta, facendo di tutto per non fare dell’emergenza permanente e incontrollata la tomba del bene comune in questi anni venti che cominciano.