Luigi Di Maio, detto Giggino, qualche giorno fa ha superato se stesso. Facciamo la doverosa premessa. A Hong Kong, ex colonia britannica che deve unirsi alla Cina, la quale già controlla l’isola con uno statuto speciale di parziale autonomia, sta accadendo letteralmente il finimondo.
Da mesi, di fronte alla politica della governatrice Carrie Lam (un’autentica serva di Pechino), prima è scoppiata una grande rivolta democratica, repressa brutalmente ma non soffocata, poi c’è stata una partecipazione massiccia alle elezioni amministrative che hanno visto i democratici stravincere di fronte ai nipotini di Mao Tse Tung e della “banda dei quattro”, che si è riciclata più volte, passando attraverso varie stagioni ideologiche, anche dalla tragedia e dallo scempio di piazza Tienanmen fino a un espansionismo in perfetta forma capitalista e imperialista.
A Hong Kong si vive una tragedia che presupporrebbe, da parte occidentale, almeno un sostegno a parole verso i democratici contro quel mondo pechinese che assomiglia a un animale aggressivo: un impasto paradossale tra maoismo, comunismo residuale, confucianesimo e pura voracità neo-mercatista. Che cosa si aspetta un democratico occidentale di fronte alla battaglia di Hong Kong? Che almeno il suo ministro degli Esteri esprima solidarietà ai democratici in rivolta e condanni le brutali repressioni poliziesche.
Ma Luigi Di Maio, il nostro nuovo ministro degli Esteri (una disgrazia incredibile nel caos italiano dilagante), come abbiamo detto, ha superato se stesso, dichiarando il 4 novembre scorso: “Noi in questo momento non vogliamo interferire nelle questioni altrui e quindi, per quanto ci riguarda, abbiamo un approccio di non ingerenza nelle questioni di altri Paesi”. Una sfilata invereconda.
Giggino ha, come noto, le tipiche caratteristiche del politico che non ha intelligenza e tanto meno coraggio. Fosse vissuto il 18 luglio 1940, dopo la caduta della Francia, e fosse stato presente come i gerarchi fascisti e i vari “Quisling” europei alla riunione di Berlino tenuta dal Fuhrer, si sarebbe probabilmente spellato dagli applausi o avrebbe mandato, come fece Stalin, un telegramma di congratulazioni a Hitler, che allora era suo alleato.
Ora non si pretende da questa specie di ministro degli Esteri che si trasformi in un Bettino Craxi che attacca Reagan, Kissinger e Milton Friedman per il golpe e la gestione del Cile di Pinochet e tanto meno in un personaggio che a Sigonella difende l’Italia anche contro un alleato storico. Ma la calata di brache di Di Maio lascia esterrefatti e anche un poco sgomenti.
Ci sono spiegazioni a questo atteggiamento: la prima è di conoscenza storica eterodiretta, quindi superficiale. Ma c’è anche, con tutta probabilità, la seconda più importante, costituita dal sospetto di una ricerca di accasamento, di una autentica corte e genuflessione pentastellata ai cinesi per interessi molto concreti. L’ambiguità grillina infatti ha radici solide sia nell’ignoranza sia nel cercare protezione di ogni tipo.
È noto che Di Maio nuoti letteralmente in un Paese dove i media italiani di ogni tipo guardano alla tragedia di Hong Kong con un distacco disarmante, con poche notizie e molte omissioni, se non proprio con “fatti nascosti”. Pechino sta arrivando dappertutto con i suoi soldi, tra un po’ magari si prenderà anche un giornale italiano o foraggerà una televisione, quindi meglio stare all’occhio.
Poi c’è una tradizione del Belpaese che arriva direttamente dal Sessantottismo, quando i cinesi erano la speranza del dopo Urss, quando delegazioni di magistrati (c’è un famoso libro di un “pentito” che racconta le visite in Cina per vedere i “democratici” processi cinesi). La Repubblica di Eugenio Scalfari, che aveva imparato giornalismo sotto il regime fascista, titolò alla scomparsa di Mao: “È morto il grande timoniere”; quasi un deferente omaggio. C’era persino il film di Marco Bellocchio La Cina è vicina.
Quindi il Vietnam, da sostenere contro l’imperialismo americano, fino a quando nel 1981 fu la Cina stessa a invadere proprio il Vietnam per rompere l’asse russo-indocinese. Tutte cose, che, ne siamo certi, Di Maio ignora alla grande, si potrebbe dire a menadito.
L’etero-direzione culturale funziona poco adesso, ma gli interessi hanno un peso rilevante. La famosa Via della seta è stata una scelta e una speranza soprattutto grillina, che ha già fatto girare le scatole agli americani nell’ultima fase del governo giallo-verde. Per ricordarlo a Di Maio, gli americani sono quelli della Nato.
E proprio per questioni militari, per motivi di sicurezza, ci sono in ballo contrasti e questioni spinose sulla nuova tecnologia, sullo spionaggio a colpi di giga, guerre figurate, commerciali, con Huawei. Inoltre c’è sempre, purtroppo per Di Maio, la ricerca del nuovo assetto geopolitico mondiale, con la previsione di una seconda Guerra fredda tra Stati Uniti (Trump o non Trump) e la Cina di Xi Jinping o di chi lo sostituirà.
Da qui l’espansionismo africano dei cinesi, la battaglia letterale per i porti europei. I cinesi guardano, ad esempio, con troppo interesse a Trieste, mentre gli americani vogliono creare un territorio libero tra Capodistria e Trieste per controllarlo con la Nato. C’è una sequenza infinita di questioni sul tappeto, compreso il ruolo che devono giocare altre potenze come Russia, India, in subordine, e si spera l’Europa anche se la signora von der Leyen è già in ansia per alcune decisive defezioni grilline. Il peso della famosa Commissione si può vendere un tanto al chilo.
Ora, se il caos regna sovrano in Italia e anche un poco in Europa, la creatura pentastellata, partorita dalla fervida mente di Luca Cordero di Montezemolo e promossa mediaticamente dal raffinato Paolo Mieli, attraverso i libri dei suoi arguti reporter contro la “casta”, è travolta letteralmente dalla sua stessa inconsistenza. Rischia il collasso e la sparizione. Nella rissa, continua e seminascosta, tra M5s e Partito democratico c’è quasi la ripetizione storicamente farsesca tra Urss brezneviana e Cina maoista: due disastri storici.
Fanno il governo insieme, litigano su tutto, gli ex sovietici parlano di rilancio con una manovra da “straccioni mercatisti”, mentre i pentastelati guardano, con profilo alto, all’etica politica (vedi caso Trenta), con le prediche dei Davigo e dei Travaglio. Protetti da questa “predica etica” che confonde solo gli sprovveduti, Beppe Grillo incontra due volte in ventiquattro ore l’ambasciatore cinese, Di Maio non si pronuncia, gli altri continuano a dichiarare che “non sono di destra né di sinistra”. Sembrano “cinesi” all’amatriciana (comunisti e mercatisti), che giocano l’ultima carta prima di una possibile estinzione.