Che la senatrice Barbara Lezzi, intransigente pentastellata grillonesca, ex ministro per il Sud, diventi una sorta di Mata Hari nella complessiva vicenda dell’Ilva e per la specifica clausola, fatta saltare, dello scudo legale, è solo il simbolo di quanto si sta toccando nella politica italiana per inconsistenza e ininfluenza.
È la senatrice pugliese, che oggi esclusa dal governo, cova risentimenti e insiste sulle sue soluzioni, quelle più intransigenti nella vicenda dell’Ilva, aggiungendo così ai suoi errori una confusione paralizzante che sta contagiando tutti, nonostante proclami di fermezza, illusioni di nuove cordate, e magari il ripristino della clausola nel caso in cui ArcelorMittal levi le tende da Taranto, creando così un effetto domino disastroso per l’industria italiana e una bomba sociale per la nuova marea di disoccupati disperati, che già preannuncia una mobilitazione a lungo termine.
Ma in fondo, a pensarci bene, Barbara Lezzi è l’autentico simbolo, una “statua di questa falsa rivoluzione”, della spaventosa sintesi tra farsa e tragedia che sta caratterizzando l’Italia di questi giorni, dopo ormai 27 anni di gloriose castronerie e di ignoranza politica raramente rintracciabili sui più disparati manuali di storia e anche di semplici cronache.
Neppure nell’immaginario regno dell’Eldorado del Candide di Voltaire si poteva creare una classe dirigente di questo tipo, quasi folkloristico. E c’è da aggiungere che, in Puglia particolarmente, l’asse tra i grillini e gli “illuminati” dirigenti del Partito democratico (a cominciare dal presidente della Regione Michele Emiliano) è saldissimo, molto di più che a livello nazionale, dove il sentimento prevalente di questo governo (l’ammucchiata anti-salviniana, che pure poteva avere un senso provvisorio da arricchire di contenuti e visioni) è invece il litigio perenne, il contrasto a tutti i costi, la rissa continua che si soffoca, in alcune ore del giorno, in vista di una tenuta che diventa sempre più problematica.
Parla Di Maio e s’incavola Renzi; parla Renzi e s’incacchia Zingaretti; parla Conte e non si capisce neppure quello che dice; parlano quelli di Leu e nessuno li ascolta. È un governo letteralmente allo sbando.
Qualcuno, di fronte a tale spettacolo, accenna alla mancanza di una politica industriale che non è più prevista dai nuovi economisti-guru-odontotecnici (parola di Keynes) della vulgata neoliberista. Sembra che se ne siano accorti in tanti, ma con un po’ di ritardo. C’è arrivata dopo decenni anche la segretaria della Cisl, Annamaria Furlan, con una dichiarazione che fa cascare le braccia: “Effettivamente in Italia di politica industriale se ne parlava ai tempi dell’Iri”. Cioè il grande ente pubblico industriale italiano, quello privatizzato, smembrato e svenduto con la benedizione di uno dei suoi ex presidenti, il “mancato premio Nobel” Romano Prodi negli anni Novanta.
Ma tutti questi signori dove hanno vissuto in questi anni? Su Plutone, che è stato pure degradato dal ruolo di pianeta?
Facciamo alcuni conti. L’Ilva significa più o meno l’1,5% del Pil nazionale. È vero che il mercato dell’acciaio è in una situazione problematica e che della situazione dell’Ilva, soprattutto per motivi ambientali di grave portata, se ne parla da anni, in modo drammatico dal 2012. I nuovi proprietari, dopo la gestione dei Riva, pare che non riescano a realizzare il piano industriale. Ma tutti questi problemi vanno affrontati non rinviati. Magari con la gradualità necessaria, ma con la costanza decisiva che occorre in ogni situazione difficile.
Inoltre fornire un alibi, con il famoso emendamento Lezzi (via lo scudo penale), a un abbandono perentorio e senza conseguenze per ArcelorMittal, che ha attualmente una produzione ridotta di quasi tre milioni di tonnellate, diventa solo un atto di semplice demenza, neppure di incapacità politica.
Il fatto gravissimo che rappresenta l’Ilva è una sorta di punto d’arrivo della crisi della repubblica (non si sa bene di quale numero) nata 27 anni fa, quando l’Italia dell’economia mista era diventata la quarta potenza industriale del mondo.
Ci voleva solo il “nuovismo” politico, giudiziario, giornalistico, economico per ridurre l’Italia in queste condizioni. Se una volta c’era la “casta” delle tangenti (scoperta improvvisamente dopo anni di traffici politico-finanziario di ogni tipo tollerati ipocritamente), oggi esiste solo una “casta” di deficienti (dal latino deficere) che stanno portando il Paese in serie B, scegliendo la deindustrializzazione “felice” dell’Italia.