La manovra 2020 sta tagliando il traguardo a fatica, accompagnata da un crescendo di critiche. Non convince la dubbia incisività finanziaria complessiva, al di là delle singole querelle sulla conferma del reddito di cittadinanza e di “quota 100” piuttosto che sulla tortuosa modulazione di plastic/sugar/web/car tax. Delude quanti – all’entrata in carica del governo Conte-2 – avevano contato sulla concessione di una flessibilità più ampia da parte dell’Ue. Scontenta infine, la volata della Legge di stabilità, coloro che ogni anno sperano in un percorso parlamentare più lineare: con meno sub e maxi emendamenti.
Per quanto possa apparire paradossale, la fisionomia contorta della manovra italiana di fine 2019 ha tuttavia dalla sua il non fare eccezione in Europa. O meglio: l’Azienda-Italia continua a essere “eccentrica” rispetto ai parametri di Maastricht (a cominciare dal debito/Pil) e alle macro-medie dell’eurozona (il +0,4% di crescita stimato per il 2020 in Italia è “modesta ripresa in una lunga fase di stagnazione”; quello archiviato in Germania per il 2019 è “il fondo di una recessione passeggera”). Tuttavia mai come in questi mesi il confronto politico-economico interno ai grandi Paesi-membri dell’Ue è caratterizzato da tensioni e contrapposizioni spesso assai più nette che in Italia. E non solo fra i partiti nei parlamenti, ma soprattutto nelle piazze.
La Francia è stata appena paralizzata da uno sciopero generale – tutt’altro che pacifico – contro un progetto di riforma complessiva del sistema previdenziale sostenuto dal presidente Emmanuel Macron. A oggi i francesi vanno in pensione a 62 anni, sotto 42 regimi diversi, con un trattamento ancora sostanzialmente a ripartizione. La spesa previdenziale ammonta ormai al 15% del Pil, con uno sbilancio finanziario annuo che ha raggiunto i 3 miliardi. Non sorprende cha Macron, da sempre interessato al Jobs Act italiano, tenga sul tavolo anche la riforma strutturale delle pensioni varata dal governo Monti otto anni fa. E l’Eliseo, per ora, non sembra intenzionato a recedere: così come, dopo un anno, non è stato firmato alcun armistizio con i gilets jaunes.
La stretta green imposta da Macron alla fiscalità dei carburanti fossili non è tornata nel cassetto. Rimane anche l’alleggerimento tributario “trumpiano” su grandi redditi e grandi patrimoni, in funzione sviluppista. Per fronteggiare le proteste già un anno fa l’Eliseo ha aumentato il salario minimo e le pensioni più basse sforando nel 2019 il tetto Ue del 3% per il deficit/Pil: che però nel budget francese 2020 è già previsto in rientro verso il 2%. Macron può contare su una crescita del Pil moderata ma stabile: +1,3% anche l’anno prossimo. E il debito/Pil resta sotto controllo: poco al di sotto di quota 100, poco sopra la media Ue.
Sempre nei primi giorni di dicembre, in Germania la nuova leadership dell’Spd ha confermato – a denti stretti – la lealtà alla grande coalizione di Angela Merkel. Ma ha iniziato con largo anticipo una campagna elettorale – al momento traguardata sul settembre 2021 – con una piattaforma politico-economica già delineata nelle sue opzioni-chiave. Primo: imposizione dell’1% sui patrimoni netti superiori ai 2 milioni di euro, con un gettito stimato di 9 miliardi. Secondo: aumento del salario minimo a 12 euro l’ora. Terzo: accelerazione delle politiche di contrasto al cambiamento climatico (orientamento che ha peraltro già provocato reazioni di piazza da parte del mondo agricolo tedesco). Quarto: superamento del rigore fiscale oltre la ferrea “regola dello zero” per il saldo corrente e per ogni aumento tendenziale del debito. Quinto e non ultimo: no ad aumenti della spesa militare, anche se la Francia preme per una riforma della Nato in senso europeista. Berlino, com’è noto, può finanziare da tempo a tasso negativo il suo debito pubblico, che è da anni in diminuzione tendenziale (59% a fine 2019, 56,8% a fine 2020). E la ripresa 2020 (stimata in +1%) sarà trainata ancora da un export in eccesso da anni rispetto ai parametri di Maastricht.
È in questo contesto che il nuovo commissario Ue agli affari economici – Paolo Gentiloni – ha parlato ai media tedeschi, spiegando che le regole finanziarie dell’Unione vanno aggiornate. Non cancellate o stravolte: ma certamente soggette a una seria manutenzione, a quasi trent’anni dal loro varo. Il confronto politico e tecnocratico sulla riforma della governance europea – voluto da Francia e Germania e già deciso – si aprirà in febbraio e durerà due anni. È qui che – anche per l’Italia – non sarà possibile non essere credibili: nei propri conti e nelle proprie proposte.